In questa pagina ho riportato gli ultimi articoli che ho scritto per il quotidiano ambientalista Terra, il settimanale Carta, Manifesto, per siti come Global Project, FrontiereNews o siti di associazioni come In Comune con Bettin e altro ancora.

Venezia, parte il ticket d’ingresso. I residenti: «Non siamo allo zoo»

La protesta Primo giorno d’accesso in città a pagamento: chi aggira la misura, chi manda al diavolo i controllori. I comitati: facciamo ricorso al Tar

La signora ha una certa età, una bandiera No Navi sulla spalle e sta andando alla manifestazione contro il ticket di ingresso. «Che umiliazione! La città in cui sono nata, cresciuta e dove mi ostino a vivere è diventata un parco tematico, un museo con biglietto di ingresso. Gruppi di ragazzini che non sono nemmeno di qui, ti fermano ai varchi mentre vai a casa tua, per chiederti un... codice Querre che, io che ho ancora un cellulare con i tasti, non so neppure cosa sia». E aggiunge: «Il sindaco ci odia, non c’è altra spiegazione».

PRIMO GIORNO di sperimentazione del cosiddetto «contributo di accesso a Venezia». Primo giorno di manicomio. Se l’obiettivo dichiarato dal comune era quello di «limitare i flussi turistici», proprio non ci siamo. Circa centomila persone sono arrivate ieri mattina in città dopo essersi «loggate» sul sito e aver scaricato il codice di accesso. Il sistema infatti non prevede, come sarebbe giusto attendersi se davvero lo scopo fosse quello di limitare il flusso, un limite alle entrate.

È SUFFICIENTE pagare i famosi 5 euro e hai il via libera. Ma solo un decimo dei turisti in visita ha pagato. Gli altri sono i cosiddetti «esenti»: persone cioè che risiedono in Veneto oppure turisti con la prenotazione alberghiera, che godono di una speciale entrata gratuita. Tanti altri visitatori sono sbarcati dai treni o dagli autobus e hanno eluso i controlli prendendo calli secondarie. Oppure rifiutandosi semplicemente di esibire il codice ai controllori: circa 200, per lo più giovanissimi precari, che non appartenendo a forze dell’ordine non hanno nessuna autorità per chiedere i documenti. Il risultato è stato un piazzale della stazione che pareva un manicomio, strapieno di gente che non sapeva dove andare, controllori che si prendevano la loro dose di insulti e turisti che si chiedevano in che girone del purgatorio fossero capitati.

UN PONTE e una calle più in là, in fondamenta Santa Chiara, mezzo migliaio di residenti si è dato appuntamento per manifestare contro il ticket. «Questa città non è uno zoo e noi non siamo comparse nel supermarket turistico del sindaco Brugnaro» grida indignato al megafono Ruggero Tallon, del comitato No Navi. «A Venezia ci sono 2 mila case vuote – continua Federica Toninelli dell’Asc, l’Assemblea Sociale per la Casa -. Il ticket serve solo a far finta che si stia facendo qualcosa. Il turismo di massa si contrasta offrendo queste case e relativi servizi a chi vorrebbe continuare a vivere a Venezia. Bisogna combattere le locazioni turistiche selvagge che stanno svuotando la città e il proliferare di alberghi. Tutte cose che il sindaco si guarda bene dal fare». Non manca qualche frecciatina al Pd, che non ha aderito alla manifestazione per partecipare a quelle istituzionali del 25 aprile. «Noi invece la resistenza più che commemorarla preferiamo farla!” ha sottolineato Federica Toninelli.

RESPINTO IL TENTATIVO di entrare in corteo nel piazzale della stazione da un cordone di poliziotti in assetto antisommossa, i manifestanti hanno raggiunto campo Santa Margherita a ritmo di musica «per rallegrare la città a cui Brugnaro vorrebbe fare il funerale». «Stiamo preparando un ricorso al Tar contro questo provvedimento medioevale – ha spiegato

Andreina Zitelli di Ambiente Venezia che ha passato mezza mattinata in stazione a spiegare in inglese ai turisti che potevano tirare dritti, senza dare credito ai supposti controllori -. Il ticket viola il principio di libera circolazione ed è violazione dei diritti anche l’obbligo da parte dei residenti veneziani di dimostrare il loro status». «Questo provvedimento è solo fumo negli occhi – ha commentato il consigliere di opposizione Gianfranco Bettin, Europa Verde -. Il comune è stato messo sotto accusa dall’Unesco per la mancata gestione del turismo e questo ticket serve solo a far credere che siano facendo qualcosa. Intanto, l’amministrazione lascia in sospeso l’emendamento Pellicani che consentirebbe al comune di intervenire sulla concessione di locazioni turistiche, limitandole».

AL TICKET di ingresso, i veneziani hanno tentato di rispondere usando l’ironia. L’Arci ha stampato un finto passaporto, che ha consegnato ai visitatori. All’interno si cita l’articolo 16 della Costituzione sulla libera circolazione dei cittadini. Ancora più spiritoso il finto biglietto stampato dall’Asc che ricalca i colori e i font usati dal comune per la campagna informativa sul ticket. Dietro si legge: «Il biglietto è valido per visitare tutta l’area di Venezia Museo. Non oltrepassare le recinzioni, potrebbero costituire pericolo. Per favore, non date da mangiare ai veneziani e non lanciate loro oggetti, neanche per attirare la loro attenzione».

«Disarmare Israele», corteo davanti alla fiera delle armi a Verona

European Outdoor Show. Il camuffamento da rassegna puramente sportiva non basta. Dura poco anche il nuovo codice etico voluto dal sindaco: molti bambini con le pistole in mano
Le prime ad arrivare sono state loro: le Donne in Nero di Verona. Anche quest’anno si sono fatte trovare puntuali all’apertura dei cancelli della fiera. Silenziose, spalle alla cancellata e grandi cartelli in mano dove si leggevano scritte come «La diffusione delle armi non aumenta la nostra sicurezza», «Abbiamo già Giulietta e Romeo, non ci servono pistole», «Insegnate ad amare e non a sparare». Cartelli per lo più ignorati dalla folla di visitatori che, sin dalla prima mattina, si è accalcata all’ingresso di Eos, acronimo per European Outdoor Show.

LA NUOVA VESTE della tradizionale fiera delle armi di Verona, dopo una lunga trattativa con associazioni pacifiste e il Comune, ha accettato di abbassare i toni e mimetizzarsi in una esposizione dedicata alla caccia, al tiro e alla pesca, togliendo il contestato termine «armi di difesa personale». Come se nel nostro Paese, in cui tutte le armi semiautomatiche sono considerate armi da sparo, ci fosse distinzione tra una pistola “sportiva” e una da difesa.

Proprio la “mimetizzazione” di quella che resta comunque una mera esposizione di armi, è stata considerata inaccettabile dalla Rete veronese per la Palestina, considerato che tra i circa 300 espositori figurano anche aziende israeliane o comunque aziende che forniscono armi ad Israele, così come a tante altre nazioni che non brillano per la difesa dei diritti umani. «In questa fiera vengono esposte armi che vengono usate per reprimere il dissenso – spiega Mackda Ghebremariam Tesfau’, attivista per i diritti dei palestinesi – Ad esporre i loro prodotti di morte figurano le maggiori industrie di armi del mondo, perché chi vende armi da caccia, da tiro e sportive, da difesa personale, equipaggia anche gli eserciti, che portano orrore e distruzione attraverso la guerra globale permanente. Guerra che ricadono come sempre sulla popolazione civile, come sta accadendo a Gaza».

Circa un migliaio di attiviste e attivisti ha accolto l’appello dell’associazione e si è radunato dietro al grande striscione «Stop al genocidio. Disarmiamo Israele». Da piazza della Fiera, il corteo ha marciato attorno alla sede espositiva per concludere davanti ai cancelli d’entrata dove si è verificato qualche tafferuglio con le forze di polizia che non hanno risparmiato le manganellate. Alla fine i manifestanti sono comunque riusciti ad esporre uno striscione pro Gaza davanti all’ingresso e sono rimasti sino a sera a gridare slogan contro Israele e le industrie belliche.

TRA GLI ADERENTI alla manifestazione, associazioni per i diritti, per il disarmo, centri sociali, partiti come i Verdi, Sinistra e Rifondazione e anche molte organizzazioni animaliste che certo non avranno gradito le dichiarazioni dell’assessore regionale veneto allo sport, Cristiano Corazzari, che dall’interno dell’esposizione ha rimarcato il fondamentale ruolo dei cacciatori, a suo dire, autentici ambientalisti «che in perfetto accordo con la Regione hanno un ruolo fondamentale nella gestione ambientale del territorio a tutto vantaggio della comunità». Rimarcando di seguito come «la gente che è qui dentro è la migliore perché è gente che rispetta le regole».

Magari, l’assessore non si riferiva al rispetto del codice etico – una novità di quest’anno espressamente voluta dal Comune – che chiedeva agli espositori di non mettere le armi in mano ai bambini. Disposizione sostenuta anche dalla Questura ma che è stata completamente disattesa.

Giorgio Beretta, autore del libro Il Paese delle Armi (Altreconomia), ha twittato da dentro la fiera: «Ma la Questura sta controllando che la sua disposizione sulla preclusione ai minori di maneggiare armi sia applicata? Ho visto molti bambini con le armi in mano con tanto di immagini – a volto oscurato – di bimbi che giocano con fucili più grandi di loro».

«Quanta ipocrisia! Pensi che alla fiera del vino l’ingresso ai minori è, giustamente, vietato. Qui invece è addirittura gratuito!», mi ha sussurrato una signora con in mano un cartello con scritto: «Anche le armi detenute legalmente ammazzano le donne».

Verona, domani il corteo contro la Fiera delle armi

Torniamo a bomba Il sindaco: solo strumenti “sportivi”. Limiti strappati dai pacifisti, non basta ai centri sociali: «Ci sono anche aziende israeliane»

«C’è davvero differenza tra un’arma da difesa e un’arma da tiro? Il fucile del cacciatore che spara al cervo è lo stesso fucile che viene utilizzato dal cecchino». Alberto Modenese, attivista della Rete Veronese per la Palestina, non cambia il suo giudizio sulla Fiera della Armi che andrà in scena a Verona a partire da sabato prossimo.

«Da Fiera Internazionale delle Armi, l’hanno fatta diventare ‘European Outdoor Show. Caccia, tiro sportivo, pesca’. Ma la sostanza non cambia. Di fatto, esporranno i loro strumenti di morte le maggiori industrie di armi del mondo. Chi vende armi da caccia, da tiro e sportive, sono gli stessi che equipaggiano anche gli eserciti, foraggiano la guerra globale e spargono dolore e distruzione nel mondo». La Rete ha annunciato una manifestazione che si svolgerà sabato, nel giorno dell’apertura dell’esposizione, a partire dalle ore 14.30 nel piazzale Fiera di Verona.

Gli attivisti della rete, alla quale hanno aderito i centri sociali del Veneto, ritengono insufficienti i cambiamenti che la nuova amministrazione comunale guidata dal sindaco Damiano Tommasi ha apportato all’evento – con la spinta decisiva (e dopo un lavoro durato due anni) di associazioni pacifiste come il Movimento Nonviolento, la Rete Pace e Disarmo, l’Opal (Osservatorio permanente armi leggere), che ieri hanno tenuto una conferenza stampa per illustrare il «discreto risultato» ottenuto. «I minori dovranno essere accompagnati – spiega ancora Modenese – ma non è stata proibita loro l’entrata. Anche le scolaresche potranno entrare in fiera con una visita guidata. Magari per imparare che la caccia è uno ‘sport’ come un altro...».

A presentare i loro prodotti nell’esposizione veronese, ci saranno anche società israeliane le cui armi stanno mietendo in Palestina migliaia di vittime innocenti, devastando ospedali, scuole, case. E altre aziende che armano l’esercito israeliano che, con la complicità dei “democratici” governi occidentali, sta compiendo quello che l’Onu chiama “plausibile genocidio” del popolo palestinese. «Tutto questo – conclude Mackda Ghebremariam Tesfau’, una giovane attivista veronese per i diritti della Palestina – per noi è inaccettabile. Così come è inaccettabile la semplificazione dell’acquisto di pistole e fucili, magari con la mimetizzazione dello ‘sport’, che i produttori di armi vogliono far passare, proponendoci un nuovo modo di essere: tutti armati, tutti pronti a sparare su qualcun altro per difendere privilegi, denaro, proprietà. Questa fiera propone un mondo dove la parola “pace” sia sempre accompagnata da “armata”».

Venezia, polemiche per la nomina di Roberto Rossetto come presidente dell’Autorità della Laguna

Gestirà anche il Mose Urbanista e paesaggista in pensione, 71 anni, nessuna competenza da segnalare nel campo della morfologia della laguna e delle sua salvaguardia. Zanella (Verdi e sinistra): «Ancora una volta le logiche della politica hanno il sopravvento rispetto alle competenze scientifiche

Manca solo l’avallo della Corte dei Conti perché Roberto Rossetto venga nominato presidente dell’Autorità per la Laguna di Venezia, il nuovo ente che dovrà raccogliere l’eredità del Magistrato delle Acque e che avrà in gestione il Mose quando, presumibilmente il prossimo anno, il Consorzio Venezia Nuova terminerà i lavori e chiuderà i battenti.

Ma chi è costui? Nel curriculum Rossetto si dipinge come un urbanista e paesaggista in pensione con una lunga attività nel settore privato. Tutto qua. Nessun “incarico istituzionali di grande responsabilità e rilievo” come richiede l’articolo 95 del decreto legge 14 agosto 2020 n.104 che istituisce l’Autorità per la Laguna. Nessuna competenza particolare da segnalare nel campo della morfologia della laguna e delle sua salvaguardia, anche queste caratteristiche richieste dalla legge. In altre parole, si tratta di un illustre sconosciuto. Un illustre sconosciuto gradito però al potere politico che, dopo tre anni di impasse, ha fatto quadrato attorno a lui. A caldeggiare la nomina di Rossetto infatti è il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, ed il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro.

«Siamo di fronte all’ennesima nomina politica» sostiene la deputata Luana Zanella, Alleanza verdi e sinistra che ha chiesto che l’urbanista venga ascoltato in commissione Ambiente della Camera. «Ancora una volta, di fronte ad un problema delicatissimo come la salvaguardia della laguna di Venezia, le logiche della politica hanno il sopravvento rispetto alle competenze scientifiche». La deputata Zanella ha sollevato anche il problema dell’età di Rossetto, 71 anni, e il suo stato di pensionato, in quanto il comma 9 dell’articolo 5 del decreto-legge n. 95 del 2012 vieta l’attribuzione di incarichi ai lavoratori collocati in quiescenza. Come se non bastasse, la legge istituiva dell’Autorità prevede che il presidente sia scelto tra una rosa di candidati papabili. Una rosa che, nel caso di Rossetto ha solo un petalo: il suo.

Tutte incompatibilità che non preoccupano l’urbanista che in città si è già reso operativo concedendosi a conferenze stampa e partecipando a vari incontri col sindaco Brugnaro per discutere sul da farsi, proprio come se la nomina fosse già nelle sue tasche.

Un comportamento che l’associazione Ambiente Venezia non ha esitato a definire «arrogante», sottolineando anche presunti conflitti di interesse. Rossetto, si legge in una nota dell’associazione ambientalista, «svolge attività professionale privata su progetti gestiti dal ministero delle Infrastrutture. Inoltre ha in essere incarichi professionali con le Istituzioni che lo hanno indicato, come la Regione con la Pedemontana Veneta, e il Comune con cui ha incarichi di consulenza per valutazioni ambientali. Essendo un libero professionista, la normativa prevede una interruzione di rapporto da almeno due anni». Ambiente Venezia lancia un appello alla Corte dei Conti, l’ultimo ostacolo alla nomina di

Rossetto: «Non vogliamo altro che la nomina sia conforme alla legge e che venga seguito il corretto percorso di comparazione e selezione dei candidati».

Non sa cosa pensare Luigi D’Alpaos, professore emerito di Idraulica dell’Università di Padova, uno dei massimi esperti della morfologia lagunare. Non sa cosa pensare perché non ha mai sentito parlare di Roberto Rossetto prima. «In tutti questi anni non l’ho mai sentito intervenire sui fatti e sulle opere lagunare su cui si discute. Non so quale sia la sua esperienza su questo campo e quindi non saprei cosa pensare della sua nomina. Quel poco che l’ho sentito dire, su interviste apparse nei giornali di questi giorni, sono solo dichiarazioni quantomeno fuori tempo e fuori luogo. Ed invece un incarico di questo tipo dovrebbe prevedere una bagaglio di conoscenze vastissimo, non solo idrauliche e morfologiche. Ma oramai la salvaguardia della laguna è solo uno specchietto per le allodole, tutti ne parlano e nessuno la pratica».

Rischiavano 15 anni, liberi tre migranti

TREVISO. I tre giovani accusati di sequestro di persona e devastazione e saccheggio per aver partecipato a una protesta risalente al giugno 2020

Sono liberi, Mohammed Traore, Amadou Toure e Abdourahmane Signate, i tre giovani migranti accusati di sequestro di persona e devastazione e saccheggio per aver partecipato a una protesta risalente al giugno 2020, in piena pandemia. Protesta innescata dalle gravi condizioni in cui versavano gli ospiti del centro di accoglienza dell’ex Caserma Serena di Treviso.

Il castello accusatorio è stato spazzato via dalla sentenza emessa venerdì pomeriggio dal Tribunale trevigiano. I tre migranti che rischiavano sino a 15 anni di galera sono stati condannati solo a una pena secondaria di un anno e 8 mesi. Pena che i richiedenti asilo hanno già scontato: da tre anni hanno vissuto tra carcere e misure cautelari. «Il tribunale ha stabilito che i tre non avrebbero dovuto nemmeno andare in carcere – commenta Monica Tiengo, attivista di Adl Cobas -. Addirittura ai tre giovani state concesse le attenuanti perché è stato riconosciuto che si trovavano in una palese situazione di mala gestione del centro, abbandonati al contagio del Covid».

La sentenza non potrà comunque riportare in vita il quarto accusato, l’appena ventitreenne Chaka Ouattara, che si è suicidato nel novembre del 2020, in una cella di isolamento del carcere di Verona. «Per lui, che era il più fragile, queste accuse si sono trasformate in una condanna a morte senza appello – conclude Monica Tiengo – Ora pretendiamo che i responsabili dell’ex Caserma Serena chiedano scusa e si dimettano».
Gli avvocati dei tre migranti hanno già annunciato il ricorso in Appello per ottenere l’assoluzione completa e farli riconoscere come vittime.

Venezia, residenti contro il ticket di Brugnaro: «Serve solo a far schei»


TURISMO MORDI E FUGGI. 
Assemblea pubblica alla pescheria di Rialto. Ingresso in città da 2 a 12 euro al giorno: «È incostituzionale, serve invece un tetto alle presenze»

Marianna è nata a Venezia e a Venezia si ostina a vivere nella sua casa a Sant’Aponal, nel cuore del sestiere di San Polo. Il suo appartamento è assediato da B&b e altre locazioni turistiche come un Fort Apache di hollywoodiana memoria: «Ne ho 12 dietro casa, 10 di fianco, 2 in calle di fronte e pure uno sul pianerottolo – spiega – Nelle ore di punta, uscire di casa diventa una impresa da tutti i turisti che ci sono in calle». La sua è una delle tante voci che mercoledì sera, sotto le volte della Pescheria di Rialto, si sono levate per denunciare il malessere di una città malata di overturism. Una malattia che la giunta del sindaco Luigi Brugnaro pretenderebbe di curare imponendo un ticket di accesso alla città. «Ma per limitare l’afflusso di turisti ci vuole un limite e non un prezzo», contesta Marianna.

Il contributo di ingresso nella città insulare, più volte vantato dalla giunta fucsia come una panacea per tutti i mali di Venezia, dovrebbe entrare in vigore a gennaio. Usiamo il condizionale perché la delibera deva ancora passare per il consiglio comunale e la sua discussione in ordine del giorno viene continuamente posticipata. Neppure di un regolamento attuativo c’è traccia. Stando alle dichiarazioni di sindaco e assessori, il costo del biglietto dovrebbe variare da 2 a 12 euro a seconda dei giorni della settimana: più c’è flusso turistico e più il biglietto costa. In questo modo, sempre secondo il sindaco, i visitatori sarebbero incentivati a venire in città quando c’è meno gente per risparmiare qualche euro. Esenti i residenti, i lavoratori, gli studenti e i turisti con una prenotazione in un hotel che hanno già pagato la tassa di soggiorno. Esenti anche i familiari e gli amici in visita per i quali il residente dovrebbe attivare uno speciale Q Code di acceso su una app.

Gli ultimi veneziani che ancora resistono tra calli e campielli, l’hanno già chiamata con tragica ironia la «tassa sui corni» e si chiedono: «Se invito a casa mia l’amante, devo prima comunicarlo ai vigili?». Battute a parte, rimane l’umiliazione per un residente di dover mettersi in fila e superare un tornello esibendo un Q Code per poter tornare a casa la sera dopo una giornata di lavoro in terraferma. Oppure di non poter ricevere visite a sorpresa di amici o familiari e di dover organizzare anche una semplice festa di compleanno preparando le certificazioni per gli accessi. Senza contare gli immancabili “furbetti” della situazione che avranno mano libera nel certificare come «amici» anche comitive da 100 persone per mettere in tasca qualche euro.

«La mia impressione è che la giunta si sia infilata in una situazione di cui non vede l’uscita – spiega Aline Cendon, presidente del Gruppo 25 Aprile che è stato tra gli organizzatori dell’assemblea a Rialto – . Sono talmente superficiali che non hanno consultato né il garante della privacy né l’avvocatura civica. Questo provvedimento viola apertamente la Costituzione che sancisce la libertà di circolazione dei cittadini. Il provvedimento inoltre ha sollevato forti proteste non solo dei residenti ma anche di chi viene in città per lavorare. Non ultimi gli avvocati, spaventati che i loro clienti debbano ottenere un pass per recarsi nel loro studio. Brugnaro, lo si sa bene, vede Venezia come uno sportello di bancomat e la sua idea è quella di monetizzare il turismo realizzando una sorta di Disneyland per ricchi dove i residenti sono solo d’impiccio all’alberghizzazione selvaggia alla quale ha sempre concesso mano libera».

«Questo balzello non c’entra niente con una politica di gestione dei flussi: c’entra con la politica del far schei che tanto piace al sindaco – commenta Gianfranco Bettin, consigliere della lista Verde Progressista – c’entra con la mercificazione ulteriore della città: dopo la storia, l’arte e la bellezza, si tenta di mercificarne anche il disagio. Il ticket non solo è inutile ma anzi rappresenta l’alibi per continuare a subire l’eccesso turistico fingendo di fare qualcosa e, magari, lucrandoci sopra. Occorre invece definire una soglia limite di presenze da rispettare. Così la città si difenderebbe dal sovraffollamento e dalla monocultura turistica restando libera e non a disposizione di chi paga».

Stage di Stato

«Non è una fatalità ma un omicidio. Basta scuola-lavoro»

Il lutto, e la rabbia, degli studenti per la morte di Giuliano de Seta 18 anni: «Non bastano più le parole. Basta con questo orrore»

«Non potevamo entrare in classe come se fosse un giorno normale e fare lezione come se niente fosse accaduto. Qualcuno cerca di far passare questo ennesimo omicidio come una tragica fatalità da risolvere invocando più controlli per la sicurezza. Controlli che sappiamo che non ci sono per i lavoratori. Figurarsi per noi studenti in stage! – spiega Nina Mingardi, portavoce del coordinamento studenti medi di Venezia -. Sono solo parole quelle che ci dicono, ma noi sappiamo che non bastano più le parole».
E così il liceo artistico di Venezia, cuore pulsante dei movimenti studenteschi del Veneto, si è fermato ieri mattina per una assemblea straordinaria organizzata dalle ragazze e dai ragazzi delle classi superiori per parlare di quanto era accaduto il giorno prima a Noventa di Piave, quando una lastra di metallo ha ucciso il 18enne Giuliano de Seta piombandogli sugli arti inferiori. Giuliano viveva a Ceggia, sempre in provincia di Venezia, frequentava l’ultimo anno dell’Istituto di Istruzione Superiore «Leonardo Da Vinci» di Portogruaro. Sognava di diventare ingegnere e la sua passione era correre con gli amici del Runners Club della sua città. Aveva cominciato da pochi giorno lo stage all’azienda metallurgica Bc Service per maturare i crediti necessari all’ottenimento del diploma secondo i criteri stabiliti dalla riforma della scuola italiana: la cosiddetta «legge della Buona Scuola» fortemente voluta da Matteo Renzi.
A seguire l’esempio degli studenti del liceo artistico Venezia, sono state anche altre scuole del Veneto, in particolare del trevigiano. Flash mob per Giuliano si sono svolti anche a Roma davanti al Ministero ed a Napoli dove in occasione di un incontro con Luigi de Magistris di Unione popolare hanno alzato dal palco un lungo striscione con scritto «Ricomincia la scuola, ricominciano i morti. No Alternanza».
Giuliano è il terzo ragazzo quest’anno ucciso dall’alternanza scuola lavoro. Eppure sono poche le forze politiche disposte a discutere sull’opportunità di mantenere gli stage nelle aziende. I commenti dei vari leader di partito si fermano al cordoglio; a quelle «parole» che la studentessa Nina Mingardi ha spiegato che non bastano più. «Una tragedia che lascia attoniti, agghiacciati. Non può succedere. Non deve succedere» ha twittato Enrico Letta segretario del Pd. Sulla stessa lunghezza d’onda il leghista Luca Zaia, governatore del Veneto, che esprime «cordoglio e piena vicinanza alla famiglia del diciottenne» e chiede «chiarezza fino in fondo sulle dinamiche dell’infortunio». Sulla questione, la Procura ha aperto un fascicolo e ha affidato le indagini al pubblico ministero Antonia Sartori che dovrà chiarire la dinamica dell’incidente in collaborazione con i tecnici dello Spisal, il servizio regionale per la sicurezza negli ambienti di lavoro.
Lutto per la morte del ragazzo anche nelle nota di Carmela Palumbo, direttrice dell’Ufficio Scolastico Regionale. «Il dolore pesa come un macigno sui cuori di tutti noi» commenta, e difende la scelta dell’istituto Leonardo Da Vinci di Portogruaro che «ha una lunga e consolidata esperienza nel campo dell’alternanza scuola lavoro e dei percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento. Essa pone attenzione alla scelta delle aziende partner del veneziano e presidia con cura tutti gli aspetti formativi dello stage».
Anche Elena Bonetti, ministra per le Pari opportunità e Famiglia ribadisce la validità dei progetti di alternanza scuola lavoro: «dobbiamo garantire più sicurezza nei contesti lavorativi ed educativi, e altrettanto dobbiamo continuare a investire in una scuola che sappia aiutare i giovani a entrare nel mondo del lavoro». Sicurezza che oggi proprio non c’è, considerando che solo quest’anno abbiamo superato la soglia dei 600 morti sul lavoro. A chiedere l’immediata abolizione dell’alternanza, oltre alla rete studentesca e l’Unione Popolare, sono rimasti i portavoce dell’Alleanza Verdi Sinistra. «Questi stage rispondono solo ad una strategia di sfruttamento del lavoro di questi ragazzi che non solo non guadagnano un euro ma rischiano anche la vita – ha spiegato Luana Zanella, coportavoce di Europa Verde del Veneto -. Se non vogliamo piangere altri morti, l’unica cosa da fare è uscire da questa logica malata che pone l’istruzione al servizio del mondo del lavoro e progettare ad una scuola che formi cittadini consapevol»”.
«Anche per Giuliano saremo in piazza per il Global Strike di venerdì prossimo – conclude Sebastiano dei Friday For Future di Venezia – Le dinamiche capitaliste che hanno ucciso Giuliano sono le stesse che stanno uccidendo il pianeta».

Scuola-lavoro, muore un altro ragazzo: colpito da una lastra

Morti bianche L’incidente vicino Venezia. La vittima aveva 18 anni e studiava in un istituto tecnico

Un’altra giovane vittima, un altro studente morto durante uno stage in azienda. L’incidente è accaduto ieri a Noventa di Piave, in provincia di Venezia, verso le 5 del pomeriggio nella ditta Bc Service, specializzata nella lavorazione del metallo. La vittima è Giuliano De Seta, un ragazzo di 18 anni di Ceggia.

Era studente di un istituto tecnico di Portogruaro e seguiva uno stage lavorativo per maturare i crediti per il diploma. Secondo le prime ricostruzioni dei carabinieri, l’incidente è avvenuto poco prima della chiusura dell’azienda: il giovane è rimasto ucciso da una lastra di metallo caduta da un cavalletto che gli ha schiacciato le gambe. Inutili i soccorsi. Il ragazzo è morto pochi minuti dopo. Sul posto è intervenuto anche lo Spisal, il Servizio prevenzione igiene sicurezza ambienti di lavoro dell’Ulss locale, i cui tecnici stanno cercando di mettere a fuoco la dinamica della tragedia.

L’incidente che ha ucciso Giuliano è avvenuto a poca distanza da quello capitato il 21 gennaio scorso al giovane Lorenzo Parelli, anche lui schiacciato da una putrella mentre eseguiva un lavoro di carpenteria metallica nell’azienda meccanica Burimec, nella zona industriale di Lauzacco, in provincia di Udine. Anche Lorenzo stava seguendo un progetto di alternanza scuola-lavoro e studiava nell’Istituto superiore Bearzi di Udine, gestito dai salesiani.

Lorenzo e Giuliano non solo le sole vittime di incidenti avvenuti durante gli stage obbligatori in azienda, previsti dalla riforma del 2015 (la cosiddetta «Buona scuola») . Il 14 febbraio scorso è morto il 16enne Giuseppe Lenoci, impegnato in uno stage in una impresa termoidraulica di Fermo, nelle Marche, mentre era a bordo di un furgone dell’azienda. Ancora più lunga la lista dei ragazzi feriti in questi stage obbligatori, alcuni dei quali hanno riportato pesanti traumi.

«L’alternanza scuola-lavoro non è altro che un lavoro non retribuito deregolamentato e che può durare anche due mesi. Uno sfruttamento che ingrassa le imprese di produzione e di servizi», ha commentato Sergio Zulian dell’Adl Cobas del Veneto. In questi stage, spiega il sindacalista, «la sicurezza è un optional e a farne le spese sono soprattutto gli studenti in stage che hanno meno esperienza dei lavoratori. Con la scusa di imparare il mestiere, i ragazzi non solo vengono sfruttati ma viene insegnato loro che è giusto così: lavorare è una fortuna per pochi privilegiati e devono accettare quello che viene loro offerto senza stare a sindacare sui diritti salariali e contrattuali».

L’Adl Cobas propone di «sostituire l’alternanza scuola-lavoro con l’alternanza lavoro- scuola», conclude Zulian. «Ai lavoratori va data la possibilità di studiare e di migliorare la loro formazione professionale frequentando corsi culturali negli orari di lavoro».
Sulla tragedia di Noventa di Piave interviene anche il leader Pd Enrico Letta: «Morire sul lavoro a diciotto anni per uno stage: una tragedia che lascia attoniti, agghiacciati. Non può succedere. Non deve succedere».

Venezia, cariche contro l’onda verde

 Fuori concorso Alla 79esima Mostra del Cinema irrompono gli attivisti climatici. Fermati a pochi metri dal Tappeto Rosso. La polizia usa gli idranti: colpita anche una locandina del film Siccità


Cariche, manganellate e idranti sotto i riflettori della 79esima Mostra del Cinema di Venezia. Un imponente cordone di polizia in assetto antisommossa ha impedito alle attiviste e agli attivisti del Climate Camp di raggiungere il Tappeto Rosso e portare la crisi climatica sotto le luci della ribalta.

Tre anni fa un nutrito gruppo di ambientalisti riuscì a occupare la passerella delle Stelle con un’azione alle prime luci del giorno e a resistere sino all’arrivo del corteo del Climate Camp. Nei due anni successivi, la pandemia impedì l’organizzazione del meeting ambientalista che è stato riproposto solo quest’anno, sempre al Lido di Venezia e sempre in concomitanza con la Mostra cinematografica. Cinque giorni densi di dibattiti e incontri, da mercoledì 7 a oggi, domenica 11 settembre, con personalità del calibro di Vandana Shiva, Andreas Malm e Mario Alberto Castillo Quintero dell’Asamblea de pueblos indigenas, organizzato da Rise Up 4 Climate Justice e Fridays For Future Venezia. Centinaia di partecipanti provenienti da tutta Italia e anche da Paesi Europei.

Ieri pomeriggio, era la giornata della Climate March: un corteo colorato e chiassoso che si è ritrovato partito alle 17 dal centrale piazzale Santa Maria Elisabetta: in testa una grande sfera verde e azzurra a simboleggiare il nostro pianeta, l’unico che abbiamo a disposizione, e tante bandiere al vento: da quelle dei Fridays For Future a quelle dei No Navi che a Venezia non mancano mai, sino agli striscioni dei comitati contro l’inceneritore di Fusina.

Il corteo si è mosso pacificamente al ritmo dei tamburi suonati dagli attivisti fiorentini del collettivo di fabbrica Gkn. Clima, diritti, lavoro: sono tutti aspetti della medesima lotta contro un sistema economico fallimentare. «Non è la crisi del clima ma la crisi di un sistema colonialista che ha mercificato la terra e i beni comuni in nome dell’interesse di pochi – dice Mario Alberto Castillo Quintero -. Non è la crisi del clima ma la crisi di una politica che non riesce più a governare i cambiamenti e a costruire una valida alternativa a potere della finanza mondiale». Gli unici partiti ad aver aderito alla manifestazione sono stati Alleanza Verdi Sinistra e Unione popolare le cui bandiere sventolavano in fondo al corteo.

«Uno scenario davvero desolante questa campagna elettorale alla quale abbiamo la sventura di assistere – dice al microfono un’attivista napoletana della Terra dei Fuochi -. In piena crisi climatica ci tocca sentire politici che parlano di rigassificatori come di una scelta compatibile con l’ambiente». «Tre anni fa, quando abbiamo occupato il tappeto rosso – racconta Sebastiano dei Fridays For Future di Venezia – c’era ancora qualcuno che negava l’evidenza scientifica dei cambiamenti climatici. Oggi queste stesse persone hanno adottato una tecnica diversa: far passare le peggiori scelte per il clima come ecosostenibili. Un greenwashing che sta cercando di far passare anche il nucleare come una soluzione ecologica. Questo è quanto volevano denunciare portando la questione della giustizia climatica sotto i riflettori delle mostra del cinema. Le cariche della polizia ce lo hanno impedito ma non possono impedirci di continuare a lottare: ricordiamo a tutte e tutti lo sciopero mondiale per il clima che i Fridays For Future hanno proclamato per il prossimo 23 settembre. È una lotta alla quale non possiamo rinunciare perché non abbiamo possibilità di scelta. Non abbiamo un pianeta B».

A pochi metri dal Tappeto Rosso, il corteo è stato fermato dal cordone di polizia. Inutile ogni tentativo di mediazione. Non è stato permesso neppure a una piccola delegazione di avvicinarsi all’entrata della Mostra del Cinema e l’unica risposta delle forze dell’ordine sono state le cariche e gli idranti. Ironia della sorte, l’acqua ad alta pressione delle pompe ha staccato da un muro la locandina del film di Paolo Virzì che si intitola Siccità.

Foto di Stian Rampoldi 

Storie di radio libere e indipendenti: dall’etere al digitale

EventiSeconda edizione a Padova del Gemini festival: tre giorni di incontri, workshop con il mondo delle emittenti. Un network che vuole essere sperimentazione di rete e condivisione di saperi

La radio con tutte le sue sfaccettature, dal podcast alla musica live, dalla diretta giornalistica al talk show, sarà la protagonista della seconda edizione del Gemini Festival che si svolgerà a Padova negli spazi del Centro Sociale Pedro da oggi a domenica 21. A far gli onori di casa, sarà la storica Radio Sherwood, fondata nel 1976, all’epoca dell’esplosione del fenomeno delle radio libere e alternative per dar voce alla contestazione. Quarantacinque anni dopo, Radio Sherwood non solo è sopravvissuta agli anni del cosiddetto «reflusso» ma si e ritagliata un ruolo sempre più da protagonista nella scena politica e culturale del nordest organizzando manifestazioni come lo Sherwood Festival.

DOPO LA PRIMA EDIZIONE svoltasi lo scorso settembre a Perugia, ospite di Lautoradio, il Gemini Festival farà quindi tappa a Padova con un programma ancora più ricco, forte di un crescente supporto di radio indipendenti che si sono aggiunte alle otto fondatrici del Gemini Network: Radio Sonar, Radio No Border, Radio Roarr, Radio Città Aperta, Radio Senza Muri, Radio Ciroma oltre alle già citate Lautoradio e Sherwood, che garantiscono la presenza di una sorta di «redazione diffusa» capace di coprire dal sud al nord l’intero territorio italiano, intrecciando storie ed esperienze. Il nome del festival e del network è stato scelto in ricordo di Corrado Gemini, attivista politico e teorico del copyleft e delle licenze Creative Commons sulle opere intellettuali. «Al contrario di quando credono alcune persone, oggi la radio è più viva che mai – ha spiegato Antonio Pio Lancellotti, direttore del sito Global Project, tra gli organizzatori del Gemini Festival – Il web ha spalancato nuovi spazi alle diffusione dei nostri contenuti. I nuovi strumenti digitali, come il podcasting, hanno allargato quegli orizzonti che prima erano confinati nell’etere. Un processo questo, che è in continua evoluzione ma che si sta dimostrando capace di aprire nuovi canali alternativi non solo di narrazione, ma anche di fruizioni di contenuti, di confronto e di organizzazione».

LA PANDEMIA e le conseguenti chiusure, hanno avuto un ruolo importante nell’accelerare questo processo. Non è un caso che la prima edizione perugina si sia svolta subito dopo la fine del primo lockdown. Ma se la prima edizione si era posta l’obiettivo di dare un segnale forte verso la ricerca di nuove forme di comunicazione in un momento difficile, l’edizione di quest’anno si colloca in una fase diversa, e per certi versi più contraddittoria della precedente. «Oggi ci troviamo in un momento in cui la comunicazione è completamente polarizzata – spiega Lancellotti -, e la stessa idea di “ripartenza” lascia meno margini a progetti come il nostro che fanno dell’indipendenza il proprio manifesto. Per questa ragione, le radio che si riconoscono nel Gemini Festival ribadiscono l’importanza di non fermarsi al singolo evento, ma di far emergere in esso l’espressione del lavoro che tutti i giorni, il Network svolge. Perché Gemini Network è innanzitutto sperimentazione di rete, vale a dire un costante scambio di competenze, condivisione di saperi, messa in circolo di pratiche ed di esperienze».

IL PROGRAMMA di questa edizione è ricco di eventi che spaziano dai laboratori ai dibattiti e alla musica dal vivo. La giornata odierna sarà dedicata al workshop sulla narrazione della crisi ecologica curato da Marco Stefanelli di Guide Invisibili. La sera appuntamento clou con le attiviste di Fem.In di Cosenza, che racconteranno le battaglie per il diritto alla salute vista da una prospettiva femminista e radiofonica. Sabato saranno due gli appuntamenti principali. Il primo con il dibattito sul diritto d’autore che avrà come protagonisti il giurista Simone Aliprandi e il fondatore di Patamu, Adriano Bonforti. Patamu è un registro online che genera una «prova d’autore» per qualsiasi opera creativa, tutelando gli autori e consentendo loro di pubblicare e condividere in sicurezza i propri lavori. Il secondo appuntamento avrà come tema l’identità della radio all’interno della cosiddetta «Era dei podcast». Tra i relatori Andrea Borgnino di Radio Rai e Jonathan Zenti di Internazionale.
Chiusura domenica con l’assemblea plenaria plenaria della rete di radio indipendenti per disegnare il percorso del Gemini Network e proporre i prossimi appuntamenti. Per accedere agli incontri sarà necessario il Green Pass o comunque un tampone negativo che potrà essere effettuato a prezzo di costo in una area predisposta del centro sociale.

Bolsonaro non è gradito, in Veneto show annullato

La visita. Ad Anguillara il presidente brasiliano costretto a disertare il comune. La cittadinanza onoraria della sindaca leghista consegnata in un ristorante. E poi va Padova senza farsi vedere

 

Niente passeggiata commemorativa per le strade del paesello che ha dato i natali a suo bisnonno Vittorio, emigrato in Sudamerica nel lontano 1888, per Jair Messias Bolsonaro. Il presidente del Brasile ha deciso all’ultimo momento di rinunciare alla cerimonia di conferimento della cittadinanza, prevista nella sede del Municipio di Anguillara Veneta, per evitare di transitare in mezzo ad una piazza pronta a contestarlo.

GIÀ ALLE DIECI DI MATTINA, nonostante il freddo e la pioggia battente di una regione in allarme giallo, almeno 200 manifestanti si erano radunati in piazza De Gasperi per attendere l’ospite non gradito. Bandiere di Europa Verde, Cgil, Rifondazione, Anpi e anche tante bandiere dei Sem Terra e del Brasile, sventolate dai migranti provenienti dal Paese sudamericano. Dietro ad un grande striscione con la scritta «Bolsonaro vergogna del Veneto» che ribaltava quello dietro al quale si erano fatti immortalare i consiglieri regionali leghisti «Bolsonaro orgoglio veneto» nei giorni della sua elezione a presidente anche una rappresentanza di consiglieri dell’opposizione.
Senza bandiere e senza striscioni, ma non per questo meno rilevante, la partecipazione di alcuni frati comboniani che hanno ricordato i loro martiri come padre Ezechiele Ramin e don Ruggero Ruvoletto, assassinati per aver difeso le popolazioni originarie d’Amazzonia. Quella stessa Amazzonia che Bolsonaro ha consegnato ai latifondisti e alle multinazionali dei fossili, facendo degli indigeni carne da macello. «Conferire la cittadinanza a uno come Bolsonaro che proprio pochi giorni fa è stato deferito per crimini contro l’umanità da una commissione parlamentare del suo stesso Paese, è uno schiaffo ai valori della giustizia ecologica e sociale ha urlato Paolo Perlasca, portavoce di Europa Verde -. Soltanto con la sua gestione della pandemia, tra negazioni, false cure a base di idrossiclorochina e ritardi nella vaccinazione degli indigeni, ha causato 606 mila vittime! Magari la cittadinanza gliela potevano conferire domani (oggi, ndr) che è il giorni dei morti!».

IL PRESIDENTE BRASILIANO col suo seguito personale e i deputati leghisti Dimitri Coin e Luis Roberto Lorenzato, gli artefici dell’operazione, si è recato direttamente al ristorante di Villa Arca del Santo dove ha pranzato con la sindaca di Anguillara, Alessandra Buoso, e alcuni discendenti della famiglia Bolsonaro, suoi lontani parenti. Qui, «felice e onorato per l’onore ricevuto», Jair Bolsonaro ha ringraziato la sindaca per la cittadinanza e un gruppo di suoi entusiasti fedelissimi che lo hanno osannato davanti ai cancelli di Villa Arca.

Niente osanna per il presidente a Padova dove, nel primo pomeriggio, circa 500 attiviste ed attivisti dei centri sociali e di altre realtà cittadine, si sono dati appuntamento a Pra’ della Valle con l’intenzione di raggiungere il sagrato della Basilica del Santo dove Bolsonaro aveva annunciato che si sarebbe recato per pregare Sant’Antonio, patrono del Brasile. Il corteo è stato fermato da un cordone di forze dell’ordine. Manganellate, idranti, cariche violente, scene da guerriglia urbana e unattivista fermata è il bilancio degli scontri.

FREDDA COME L’ACQUA degli idranti, l’accoglienza che il presidente ha ricevuto dalle autorità civili e religiose della Città del Santo. Il sindaco, Sergio Giordani (a capo di un’amministrazione di centrosinistra), ha fatto sapere che aveva «altro da fare». Il vescovo Claudio Cipolla e il rettore della


basilica francescana, Antonio Ramina, hanno diffuso un comunicato in cui, proprio in virtù del forte legame costruito dai migranti che dalla terra veneta sono andati in Brasile, e «per la presenza missionaria diocesana e di diverse famiglie religiose che vivono il loro servizio in quel Paese, non possiamo dimenticare le testimonianze pagate con il sangue e neppure la sintonia e l’amicizia personale ed ecclesiale con i vescovi del Brasile, che proprio in questi mesi stanno denunciando a gran voce violenze, soprusi, strumentalizzazioni della religione, devastazione ambientali». La protesta trasversale di Padova costringe così il presidente brasiliano, che ieri ha snobbato l’apertura di Cop26 preferendo lo show veneto, a visitare la Basilica solo nel tardo pomeriggio e in forma riservatissima, entrando da un ingresso secondario per non essere visto.

Frati, centri sociali e ambientalisti: «Fora Bolsonaro»

Italia/Brasile. Cittadinanza onoraria e sant'Antonio: il presidente brasiliano lunedì ad Anguillara Veneta e Padova. Ma ad accoglierlo c’è solo la Lega, che lo considera «orgoglio veneto». La mobilitazione è già partita



Anguillara Veneta, paese di poco più di 4mila abitanti sprofondato nella Bassa Padovana, si è trovata ieri mattina con il municipio ricoperto di vernice e con qualche carrellata di sterco davanti alla porta.

L’azione è stata rivendicata dalle attiviste e gli attivisti della rete Rise Up 4 Climate Justice che hanno tappezzato il paese di scritte «Fora Bolsonaro!». Un modo diretto e colorito per spiegare al presidente brasiliano che la sua visita, prevista per la mattinata di lunedì 1 novembre, non è affatto gradita a chi combatte i cambiamenti climatici.

E anche per far capire alla sindaca leghista del paese, Alessandra Buoso, che non era il caso di concedere la cittadinanza ad honorem a un politico contro cui è in atto alla Corte internazionale dell’Aja un procedimento per istigazione al genocidio delle popolazioni indigene dell’Amazzonia.

La notizia del conferimento della cittadinanza di Anguillara paese di nascita del bisnonno del presidente a un discusso uomo politico come Jair Bolsonaro ha sollevato il classico vespaio di proteste, non solo nel Veneto ma anche in tutta Europa.
La stessa sindaca ha cercato di smorzare le polemiche attenuando i toni entusiastici dei primi comunicati. «Conferendo la cittadinanza al presidente Bolsonaro ha spiegato Buoso intendiamo conferire idealmente questo onore a tutti i nostri migranti che hanno preso la via del Brasile».

Una lettura subito smentita dalle opposizioni in consiglio comunale che hanno fatto notare come nella delibera non si faccia nessun accenno ai nostri emigrati ma si citi solo ed esclusivamente Bolsonaro.

D’altra parte, l’esaltazione della Lega per il presidente brasiliano, bisnipote di un veneto doc, si è manifestata sin dal giorno delle sua elezione, quando i consiglieri regionali del Carroccio si sono fatti immortalare felici e contenti mentre reggevano uno striscione con la scritta «Bolsonaro orgoglio veneto» sullo sfondo del Canal Grande.

Orgoglio che oggi soltanto i leghisti continuano imperterriti a manifestare, rilanciando il tweet preparato dal loro deputato Luis Roberto Lorenzato, non a caso eletto nella circoscrizione estera del Sudamerica, che ritrae un Bolsonaro sorridente accanto alla scritta «L’Italia nel cuore, il Brasile sopra tutto, dio sopra tutti».

Lorenzato è il vero artefice di questa operazione mediatica che gioca sulle emozioni del ritorno alla terra degli avi e sulla fede religiosa.

Dopo Anguillara, il primo cittadino brasiliano raggiungerà Padova per pregare nella Basilica di sant’Antonio, santo di lingua portoghese molto venerato in Brasile. Ma, nonostante le pressioni di Lorenzato e dei consiglieri leghisti in Regione, l’amministrazione di centrosinistra di Padova ha già fatto sapere che considera il presidente un ospite poco gradito e che non sarà ricevuto in Comune.


Non solo. Anche i frati francescani hanno annunciato che, pur non potendo impedire a Bolsonaro di pregare nella basilica, non hanno la minima intenzione di accoglierlo, né in forma ufficiale né privata, e che, per dirla tutta, loro stanno dalla parte degli indigeni.

In Prato della Valle insomma, ad attendere il presidente brasiliano ci sarà solo la Lega. La Lega e gli attivisti degli spazi sociali del nord est, ma con fini radicalmente opposti. «Perché contestiamo Bolsonaro? spiega Rolando Lutterotti Perché è una sintesi perfetta di tutti i mali contro cui lottiamo: ha consentito le aggressioni agli indigeni, ha incendiato e deforestato l’Amazzonia consegnandola alle multinazionali del legno e dei fossili, nega i cambiamenti climatici, si dichiara razzista e omofobo, e come se non bastasse, la sua gestione della pandemia ha causato almeno 600mila morti in Brasile. Ce n’è a sufficienza, mi pare, per contestare questo Hitler del nostro secolo».

In piazza anche Europa Verde che lunedì mattina sarà ad Anguillara per distribuire volantini informativi sui crimini compiuti da Bolsonaro verso l’ambiente e le popolazioni indigene.

«La cittadinanza a un personaggio come Bolsonaro è uno schiaffo alla memoria delle molteplici vittime dell’azione politica spregiudicata di questo politico spiega l’ambientalista Paolo Perlasca -. Europa Verde è pronta a ricorrere in Tribunale per annullare questa decisione».

La protesta dei lavoratori-schiavi in prefettura

CaporalatoDopo aver incontrato una delegazione della commissione parlamentare sulle condizioni di lavoro, il prefetto di Padova, Raffaele Grassi, ha ricevuto nel pomeriggio una rappresentanza dei lavoratori che manifestavano sotto le sue finestre

Sono scesi tutti in piazza, probabilmente per la prima volta in vita loro, a reclamare diritti e dignità. Una trentina di lavoratori ha pacificamente manifestato ieri mattina in piazza Antenore, davanti alla sede della Prefettura di Padova, sostenuti dagli attivisti dell’Adl Cobas. Sono i lavoratori schiavizzati dalla cooperativa BM Services: pakistani per di più, ma anche qualche somalo ed eritreo. Lavoratori senza stipendio, costretti a lavorare per 12 ore al giorno all’interno degli stabilimenti di Grafica Veneta di Trebaseleghe o di Barizza International di Loreggia.

Due colossi, il primo in particolare, nel campo dell’editoria internazionale che utilizzavano i lavoratori schiavi messi a contratto dalla BM Services. L’inchiesta che ha portato all’arresto di 11 persone, tra i quali l’amministratore delegato Giorgio Bertan e il responsabile della sicurezza Giampaolo Pinton di Grafica Veneta, è partita dopo il ritrovamento di un lavoratore pakistano picchiato, derubato e abbandonato legato ai bordi di una strada dai connazionali della BM Services. «Questi lavoratori non potevano neppure protestare perché la BM teneva in ostaggio i loro documenti e li ricattava trattandoli come schiavi ha spiegato Stefano Pieretti di Adl Cobas Oggi finalmente hanno potuto fare sentire per la prima volta le loro voci».

Dopo aver incontrato una delegazione della commissione parlamentare sulle condizioni di lavoro, il prefetto di Padova, Raffaele Grassi, ha ricevuto nel pomeriggio una rappresentanza dei lavoratori che manifestavano sotto le sue finestre. «Abbiamo spiegato al prefetto che la proposta avanzata dalla proprietà è irricevibile spiega Pieretti -. Queste persone che hanno lavorato per anni, sfruttati e sottopagati, negli stabilimenti di Grafica Veneta non possono essere liquidate con un contratto a tempo di sei mesi ed un bonus di un migliaio di euro per gli stipendi non ricevuti».

L’Adl Cobas ha chiesto, sia per i 21 lavoratori delle Grafiche che per i 14 della Barizza, un contratto a tempo indeterminato e una liquidazione di 1500 euro per il mese di luglio che, a causa degli arresti che hanno praticamente azzerato la Bm Services, non gli è stato retribuito. «Abbiamo anche lanciato una sottoscrizione per consentire a questi lavoratori che sono letteralmente alla canna del gas di poter mangiare fino a che la loro situazione lavorativa non sarà stabilizzata. Teniamo presente che molti di loro si troveranno senza un tetto perché la BM non ha più pagato l’affitto della casa in cui li costringeva a vivere venti alla volta».

Una situazione, questa del caporalato diffuso nel mondo del lavoro che l’Adl Cobas ha denunciato i più occasioni. «Se il lavoro sporco del caporalato viene sempre lasciato ad altri, in questo caso la BM, non ci vengano a raccontare che i vertici delle aziende coinvolte non ne sapevano nulla! conclude Pieretti Grafica Veneta aveva stipulato un contratto da 270 mila euro all’anno con la BM per 21 lavoratori. Basta fare due conti ed appare evidente che questo non poteva significare altro che una retribuzione da 4 euro l’ora al massimo. Un bel risparmio per una azienda di punta nel campo dell’editoria che lo scorso anno ha fatturato un ricavo di 158 milioni di euro e che certo non si può definire in crisi».

Grafica Veneta, la Cgil: «Dall’indagine elementi sconcertanti»

Sfruttamento. Nell'azienda che ha stampato Harry Potter 11 arresti con accuse pesanti

«Mi domando che razza di paese sia quello in cui ci si lamenta della disoccupazione ma si rifiuta il lavoro. Su 25 posti aperti ne ho coperti solo 4 in tre mesi. Qualche ragazzotto che dà la disponibilità c’è ma poco dopo rinunciano per via dei turni che reputano troppo pesanti». Così, nell’aprile del 2018 si lamentava in un’intervista l’amministratore unico di Grafica Veneta, Fabio Franceschini. Una personalità di spicco nell’editoria nazionale, tenuto conto che l’azienda di Trebaseleghe (Padova) pubblica best seller come la saga di Harry Potter e la biografia di Barack Obama.

Già grande amico del governatore del Veneto Giancarlo Galan, prima della sua rovinosa caduta, Franceschini si era lasciato convincere a candidarsi al parlamento nel 2018 nel collegio di Vicenza con i colori di Forza Italia ricavandone però la classica trombatura per l’inaspettato balzo in avanti della Lega. Parole, queste del patron di Grafica Veneta sulla poca voglia di lavorare dei giovani, che assumono tutto un altro sapore dopo l’inchiesta dei carabinieri di Padova sullo sfruttamento dei lavoratori stranieri in forza alla sua azienda che hanno portato all’arresto di 11 persone accusate, tra le altre cose, di rapina, estorsione e sequestro di persona.

Nove degli arrestati sono di origine pakistana. Secondo gli inquirenti, facevano parte di una organizzazione specializzata nello sfruttare i connazionali, obbligandoli a vivere e a lavorare in condizioni inumane negli stabilimenti della Grafica e utilizzando metodi violenti come pestaggi, minacce alle famiglie e sequestri. L’inchiesta infatti è cominciata dopo il ritrovamento di un lavoratore pakistano legato, picchiato e abbandonato ai bordi di una statale di Piove di Sacco (Padova). Gli ultimi due arrestati sono però due pezzi grossi di Grafica Veneta: Giorgio Bertan, amministratore delegato, e Giampaolo Pinton, direttore dell’area tecnica dell’azienda. Il patron, che non risulta indagato, ha comunque espresso parole di fiducia nei confronti dei suoi stretti collaboratori finiti in manette sottolineando «la piena stima e il completo supporto».

Diverso il parere degli inquirenti secondo i quali i due erano perfettamente a conoscenza dei metodi usati dall’organizzazione pakistana. Mentre la magistratura prosegue le indagini, emergono particolari raccapriccianti sulle condizioni di lavoro ai quali sono sottoposti i lavoratori, tutti assunti con contratti capestro interinali, costretti a turni di 12 ore, senza ferie e tutele, e obbligati per di più a versare parte dello stipendio all’organizzazione per pagarsi l’affitto in stanze dormitori fatiscenti riempite con una ventina di persone. Non sono mancate le reazioni sul piano politico e sindacale.

Cristina Guarda, consigliere regionale di Europa Verde, ha sottolineato in un comunicato la vicinanza dell’azienda con il presidente veneto Luca Zaia. In più occasioni infatti, il Governatore leghista ha espresso ammirazione e pubblicamente lodato la Grafica per aver fornito 2 milioni di mascherine ai tempi della prima ondata pandemica. «Vista oggi, quella di Grafica Veneta sembra solo una azione di ethics washing. Chiediamo alla Regione di valutare tutti gli strumenti idonei a tutela della propria immagine e della qualità del lavoro in Veneto. Anche per valutare se ci sono altri casi come questi nel nostro territorio».

Per la Cgil regionale, il caso di Grafica Veneta dimostra una volta ancora come il sistema degli appalti e delle esternalizzazioni sia un sistema malato. Premesso che spetta alla magistratura fare luce sull’intera vicenda, Christian Ferrari, segretario generale della Cgil del Veneto, ha commentato: «Quanto emerge dall’indagine è già di per sé sconcertante. Stiamo parlando di lavoratori ridotti sostanzialmente in schiavitù. Lavoratori privati non solo dei diritti più elementari ma addirittura della loro libertà. Noi abbiamo molte volte denunciato che il fenomeno del caporalato è presente nella nostra regione nell’agricoltura, nell’edilizia e nella logistica. Ma sapere che nemmeno una azienda che è considerata un’eccellenza della nostra industria a livello nazionale e internazionale sia immune da questo fenomeno deve far riflettere tutti. E deve far agire le istituzioni».


La marea in protesta: sfida a caldo e cariche della polizia

Le mobilitazioni contro il G20. In piazza con le parole d’ordine: Giustizia sociale, giustizia climatica, reddito e welfare per tutti

Cariche, manganelli e lanci di fumogeni. Vent’anni dopo Genova, la risposta dei potenti della terra a chi prova a ricordare loro che una altro mondo è possibile, non è cambiata di una virgola.

«CI HANNO VOLUTO MOSTRARE il vero volto del capitalismo barricato dentro l’Arsenale, al di là di tutte i proclami ipocriti che fanno su resilienza e conversioni ecologiche» dice una ragazza che si teneva la testa sanguinante per una manganellata. Eppure, la manifestazione era cominciata in maniera pacifica. Almeno 1.200 persone hanno accolto l’appello della rete We Are Tide You Are Only G20 e hanno raggiunto la fondamenta delle Zattere per protestare contro il summit della finanza al grido di «Giustizia sociale, giustizia climatica, reddito e welfare per tutti».

Appuntamento alle 14,30 sotto un solleone da climate change col termometro che passava i 30 gradi. Ad offrire un po’ di fresco solo l’ombra dei gazebo delle varie associazioni che hanno costituito la rete contro il G20, con quello dei No Grandi Navi a far gli onori di casa.

Tanti gli interventi che si sono succeduti al microfono per ricordare che il clima non fa sconti a nessuno e che se vent’anni fa il conflitto era tra capitale e lavoro, oggi è tra capitale e vita. «Noi questo lo abbiamo capito spiega Tommaso Cacciari, uno dei portavoce della rete i potenti che si sono asserragliati dentro l’Arsenale, no. Non possiamo accettare che le loro scelte condizionino il futuro di tutta l’umanità. Oggi, a differenza di vent’anni fa, la giustizia climatica è al centro delle rivendicazioni di tutti i movimenti e ci aiuta a superare le differenze. Ma per i ministri che sono barricato dentro l’Arsenale non è cambiato nulla». La rete We Are Tide You Are Only G20, noi siamo la marea voi siete solo il G20, nasce a Venezia contro il summit della finanza ma non finirà a Venezia, perché tornerà in piazza in tutte le altre città italiane in cui si svolgeranno i G20 ed è solo il primo passo di un percorso che si concluderà a Glasgow, in occasione della prossima Cop sul clima.

LA PANDEMIA e, soprattutto, la suddivisione del summit in tanti vertici da svolgersi in altrettante città, hanno impedito una partecipazione internazionale alla manifestazione delle Zattere, ma sono comunque intervenute le principali realtà ambientaliste del Paese, da Stop Biocidio Campania ai No Tav della Valsusa, sino ai Fridays For Future e a Extinction Rebellion. Dentro la rete We Are Tide ci sono anche sindacati di base come i Cobas e l’Adl, associazioni transfemministe come Non Una di Meno e anche due partiti politici come Rifondazione e i Verdi, entrambi presenti all’iniziativa di ieri con i loro attivisti.

Una manifestazione pacifica fino a quando è partito il corteo con l’obiettivo di violare la zona rossa e raggiungere l’Arsenale. In calle Sant’Agnese, ai piedi del ponte dell’Accademia, gli attivisti si sono trovati di fronte uno sbarramento di polizia in assetto antisommossa che ha caricato la testa del corteo che è riuscito a resistere al primo impatto ma ha dovuto ritirarsi sotto i manganelli. Una decina di persone ha riportato contusioni e un attivista è stato fermato dalla polizia. I manifestanti hanno quindi fatto ritorno alle Zattere ed hanno continuato a presidiare la fondamenta chiedendo la liberazione dell’attivista. Dall’altra parte della città intanto, Un gruppo di ragazze e di ragazzi di Extinction Rebellion si è recato sul ponte di Calatrava e ha messo in atto una colorita performance, colorando di rosso i gradini e stendendosi per terra.

Su un grande striscione appeso sopra il ponte sul Canal Grande si leggeva: «I loro soldi, il nostro sangue». «La rete We Are Tide è tutto questo spiega Anna Clara Basilicò -. C’è chi tenta di violare la zona rossa, chi organizza performance, chi sceglie di partecipare con altri mezzi. C’è rispetto delle diverse sensibilità senza che una creda di doversi imporre sull’altra. La battaglia per la giustizia climatica riguarda tutte e tutti perché è una battaglia per il futuro di tutte e tutti».

«Noi siamo la marea, voi solo G20»: oggi scende in piazza la rete «We Are Tide»

Ci si sveglia al rombo degli elicotteri, qui in laguna. Volano bassi per meglio sorvegliare calli e campielli. Cominciano all’alba e vanno avanti e indietro senza concedere tregua sino al tramonto. Si tratta per di più degli Aw139 Leonardo. Velivoli dalle altissime prestazioni ma che in un’ora di volo bruciano 600 litri di carburante. I giornali parlano tutti di una Venezia «blindata» nei giorni di questo G20 della finanza cominciato giovedì e che si concluderà domani. Volano sopra una città militarizzata. Una città «blindata» come ripetono pedissequamente tutti i media.

A portare un po’ di colore in questo grigioverde militare che ha invaso calli e campielli, ci hanno pensato le ragazze ed i ragazzi di Extinction Rebellion, una cinquantina circa, che ieri si sono incollati col sedere per terra sui masegni delle calli che portano all’entrata principale dell’Arsenale, costringendo giornalisti e politici diretti al vertice a scavalcarli. «Così magari si accorgono che ci siamo anche noi» mi ha spiegato un giovanotto con un cartello appeso al collo con la scritta «I loro soldi saranno la nostra estinzione».

Lunedì 5 luglio era stata la volta degli attivisti di We Are Tide You Are Only G20 (Noi siamo la marea voi siete solo G20). La rete nazionale contro il summit cui hanno aderito associazioni ambientaliste, sindacati di base, movimenti sociali, studenteschi e di lotta ai cambiamenti climatici come i Fridays For Future.

Gli attivisti hanno organizzato in una dozzina di città italiane, dei sit in davanti alle filiali di Banca Intesa San Paolo. Banca, hanno scritto «scelta per i suoi continui investimenti nellambito del carbon fossile e perché rappresentativo del mondo della finanza».

La rete si è costituita nel un patronato di una chiesa periferica di Marghera, dove il parroco don Nandino Capovilla ha dato spazio a tutti coloro che, come lui, sognano una economia diversa.

Mercoledì, è stato il momento dell’oramai tradizionale striscione sul Canal Grande. Un centinaio di attiviste e attivisti di We Are Tide, dopo aver tenuto una improvvisata conferenza stampa nel vicino campo di San Bortolomio, è salita sul ponte di Rialto per appendere un lungo lenzuolo in cui si annunciava la manifestazione di oggi.

Ed è proprio questo pomeriggio che è attesa la principale manifestazione contro il summit. Appuntamento alle 14,30 alle fondamenta delle Zattere, storico teatro di tante iniziative contro le grandi navi. Ma non sarà solo una manifestazione “contro”, questa organizzata da We Are Tide.

«Vogliamo interfacciarci con questo G20 che parlerà di finanza per chiedere che la discussione sul futuro dell’economia venga affrontata seriamente e in maniera propositiva. Le alternative ci sono spiega Anna Clara Basilicò, portavoce della rete -: un reddito universale accessibile a tutte e tutti, un sistema monetario controllato dagli Stati e non dalle banche. Questi sono i veri nodi da affrontare. La finanza oggi altro non è che una logica speculativa che metta a valore la vita stessa e non più soltanto le ore di lavoro o il prodotto. E’ una messa a profitto globale del vivente che regala grandi ricchezze a pochi escludendo i corpi che la producono. Questa economia malata che depreda ed impoverisce la terra portando miseria a interi popoli, e si nutre di crisi: sia quelle sociali che causano

le migrazioni, che di quella climatica ed anche di quella pandemica, considerando che il Covid è nato probabilmente da uno spillover imputabile ai cambiamenti del clima. Ciò che sarà discusso nel summit invece, è la solita ricetta liberista che è la causa e non la soluzione del problema».

E così, vent’anni dopo Genova, oggi tocca a Venezia mobilitarsi contro il summit dei Grandi, per spiegare a 20 potenti che finanza e vita non vanno d’accordo tra di loro, e che il futuro del pianeta appartiene a tutti. Sono attese delegazioni e attivisti da tutte le città italiane. La polizia ha già lanciato l’allarme per «possibili infiltrazioni di Black Bloc». Ed anche questo ci ricorda tanto Genova.

Clima, sanità e diseguaglianze, al G20 di Venezia è prevista «l’alta marea»

G208-11 luglio, rete di movimenti prepara la protesta

«Chi rotolerà via la pietra del sepolcro?» E’ la domanda che campeggia sopra il portone della chiesa della Resurrezione. Una chiesa di frontiera in una quartiere di frontiera, quello della Cita, che sorge nella periferia di Marghera che a sua volta è la periferia di Venezia. Alti palazzi condominiali con le finestre che da un lato si affacciano sopra la stazione di Mestre e dall’altro spaziano sino a quel che rimane di quella laguna che era dei dogi.

Ed è proprio dal sagrato di questa chiesa di frontiera che salirà la marea delle mobilitazioni contro il G20, che si svolgerà nel capoluogo veneto da giovedì 8 a domenica 11 luglio. La marea, lo sa bene chi è nato in laguna, fa tanti danni e non si ferma davanti a niente. Mose compreso. Per questo, le attiviste e gli attivisti che stanno preparando le mobilitazioni hanno scelto come nome della loro piattaforma: «We are tide. You are only (G)20». «Noi siamo la marea, voi siete solo (G)20».

La pietra sepolcrale che la marea si augura di rotolare via, è quella ben nota dei 2 miliardi di persone al mondo che non hanno assistenza sanitaria e neppure accesso all’acqua potabile e non avranno voce in questo summit. Oppure dell’1% più ricco della popolazione che possiede metà della ricchezza globale. O, se preferite una chiave ambientalista, del 10% del mondo che è responsabile di oltre metà delle emissioni climalteranti. Tutte pietre per le quali il G20 proporrà ricette che, spiega We Are Tide, non sono soluzioni ma parte integrante del problema. Esattamente come il Mose. E come la marea, la mobilitazione parte da lontano ed investe tutto ciò che è movimento. Domenica pomeriggio, grazie all’ospitalità di don Nandino Capovilla, personaggio bene noto nel veneziano per le sue battaglie a favore del popolo palestinese, sul sagrato della chiesa della Resurrezione, si sono dati appuntamento Fridays For Future, No Grandi Navi, centri sociali, rappresentanti di associazioni ambientaliste e anche di formazioni politiche come i Verdi.

Una assemblea di avvicinamento al G20 che ha l’obiettivo di far partire quella marea che non si fermerà a Venezia ma investirà le piazze di tutte le altre città che ospiteranno gli incontri del G20, a partire da Napoli e sino al summit vero e proprio, che si svolgerà a Roma questo autunno. E avanti ancora, sino alla Pre Cop sul clima di Milano di fine ottobre. Perché è proprio quella per il clima la battaglia da combattere. Le numerose crisi sistemiche che si sommano, ultima quella della pandemia, sono solo un sintomo della più vasta crisi climatica ha spiegato Anna Clara Basilicò, di We Are Tide Il G20 rappresenta gli Stati con le economie più ricche a livello planetario e pretende di ricondurre il mondo a quel sistema neoliberista che ha eliminato i diritti dal suo vocabolario, costruendo un divario sempre maggiore tra ricchi e poveri, svilendo ogni processo democratico.

Lo strumento che il G20 propone è quello della finanza che ha garantito solo profitti per pochi a scapito dei diritti di molti. Dietro a formule come ‘transizione ecologica’, si nasconde un tentativo di rilanciare l’economia fossile, investendo ancora più miliardi in grandi opere inutili e dannose. Ma questa non è la soluzione. E’ il problema”.

Un processo che va a pari passo con la militarizzazione sempre più massiccia cui assistiamo nelle nostre strade. Durante il G20, non sarà militarizzata solo l’area dell’Arsenale, dove si svolgerà il summit, ma l’intera città che sarà dichiarata Zona Rossa. Nelle calli saranno sistemati tornelli identificativi, nei campi, posto di blocco militari. I canali saranno presidiati da moto d’acqua.

Ogni manifestazione vietata per ragioni di sicurezza. «Proprio per questo la nostra risposta dovrà essere forte conclude Sebastiano, giovane attivista di We Ara Tide -. Sabato 10 saremo tutti alla Zattere, che sono state il teatro di tanti manifestazioni contro le Grandi Navi. E da qui partirà un corteo con l’obiettivo dichiarato di violare la zona rossa». La pietra da far rotolare è davvero pesante.

Riecco le Grandi Navi a Venezia, e la protesta: «Il decreto del governo è una fake news»

In laguna. Con la mastodontica Msc orchestra, un gigante da 90 mila tonnellate, si riapre la stagione crocieristica. «Il decreto - dice Andreina Zitelli del comitato No Navi - permette infatti di transitare sino a che non verrà approntata una soluzione alternativa. Soluzione che già ci sarebbe»

Ha cercato di giocare in anticipo, l’Msc Orchestra. La mastodontica nave da 90 mila tonnellate, la prima a tornare in laguna dopo lo stop forzato causato dalla pandemia, è salpata dalla Marittima con un’ora e mezza d’anticipo per evitare di incocciare nella protesta per terra e per mare che i Comitato No Navi aveva organizzato. Non ce l’ha fatta. Sin dal primo pomeriggio, il canale della Giudecca era già presidiato da decine di imbarcazioni, per lo più tradizionali, con bandiere e striscioni a difesa della laguna. Lungo la fondamenta delle Zattere, centinaia di manifestanti erano già radunati per preparare le “tavolate” con le quali avevano progettato di aspettare il passaggio della nave, recuperando una antica tradizione veneziana di cenare tutti insieme nei campi e nei campielli nella tiepide serate estive.

Il passaggio anticipato non ha impedito agli ambientalisti presenti di accogliere con fischi, trombe, lacrimogeni e qualche dito medio alzato la lussuosa nave da crociera. In acqua, si è scatenata l’oramai tradizionale battaglia navale tra attivisti a remi o a vela e le lance con supporto di moto d’acqua della polizia. In più, c’è stato la provocazione di una mezza dozzina di grosse barche a motore da carico, noleggiate da alcuni lavoratori portuali pro grandi navi, che si sono lanciate contro le barche degli attivisti senza che la polizia facesse nulla per contrastarli. Solo per buona sorte non si sono registrati incidenti gravi.

Col passaggio dell’Msc Orchestra, alta tre metri in più del campanile di San Marco, si riapre la stagione crocieristica e le Grandi Navi tornano a riprendersi la laguna, incuranti dell’inquinamento che esce dai loro camini. Quel fumo tossico che continuano a emettere anche quando la nave è attraccata e che rende Venezia una delle città con i più alti livelli di Pm10 d’Europa. Tornano a devastare i fondali dei canali muovendo una massa d’acqua insostenibile per una laguna dal precario equilibrio idrogeologico come quella di Venezia. Tornano a far passerella davanti a San Marco anche se il Governo ha ammesso che questi grattacieli galleggianti sono incompatibili con Venezia e ha varato un decreto per estrometterli definitivamente dalla laguna.

«Una fake new istituzionale ha commentato Andreina Zitelli del comitato No Navi -. Le grandi navi sono ancora qui a fare il bello e il cattivo tempo. Il Governo ha ammesso una cosa che non poteva

non ammettere: l’incompatibilità dei fondali lagunari con il passaggio delle navi con stazza superiore alle 40 mila tonnellate. Cosa che aveva già sancito il decreto Clini-Passera, nove anni fa. Ma non hanno nessuna intenzione di fermare le crociere. Il decreto permette infatti alle navi di transitare sino a che non verrà approntata una soluzione alternativa. Soluzione che già ci sarebbe ma, proprio per guadagnare tempo, il Governo ha scelto la strada del concorso di idee. Peraltro senza scadenza. Intanto le navi vanno su e giù come prima».

A questo proposito l’associazione Ambiente Venezia ha presentato una formale diffida alle autorità che sovrintendono il traffico navale affinché mettano in pratica i principi di questo decreto che sottolinea la pericolosità del mega traffico navale in laguna sostenendo che, giacché è stata comprovata l’incompatibilità per l’ecosistema, il traffico crocieristico deve essere fermato in attesa della famosa «soluzione alternativa».

In una Venezia che sta lentamente uscendo dalla pandemia solo per accorgersi che nulla è cambiato e che Giunta regionale e Comune ripropongono la stessa formula fatta di speculazioni edilizie, privatizzazione degli spazi comuni e turismo di massa, la manifestazione di ieri pomeriggio ha avuto l’effetto di una sveglia. «Ci accusano di essere contro il lavoro ha spiegato Tommaso Cacciari, portavoce dei No Navi -. Non è vero. Noi siamo e sempre saremo dalla parte del lavoro e del reddito garantito. Sono le Grandi Navi e questa economia fondata sullo sfruttamento dei beni comuni e la turistificazione di massa che portato all’allontanamento dei residenti e alla disoccupazione. Sono loro i nemici del lavoro».

I comitati ambientalisti veneti esultano: «Chi ci ha avvelenato paghi»

Eco-reatiQuindici manager di multinazionali andranno a processo per disastro doloso e inquinamento ambientale


Il rinvio a giudizio dei quindici manager della Miteni, l’azienda vicentina responsabile di aver avvelenato con i Pfas le acque di mezzo Veneto, è stato accolto con grande entusiasmo dalle 226 tra associazioni ambientaliste, comitati cittadini e pubbliche amministrazioni, che si erano costituite parte civile e che, per tutto lo scorso fine settimana hanno assediato il tribunale con un presidio permanente che si è concluso alla lettura della sentenza.
«Stiamo piangendo di gioia – ha commentato Patrizia Zuccato delle Mamme No Pfas – Temevamo che ancora una volta il potere e il denaro mettessero tutto a tacere, ma questa sentenza ci apre una strada. Sappiamo che sarà tutta in salita ma ora è una strada aperta e vi assicuro che la percorreremo sono in fondo». Anche Luigi Lazzaro, presidente di Legambiente Veneto, parla di «una prima grande vittoria». «Ci aspettiamo che venga applicato il principio che sta alla base degli ecoreati: chi inquina paga. La difesa delle falde e della salute deve stare al centro del Piano nazionale di ripresa».
La decisione del giudice per l’udienza preliminare Roberto Venditti ha accolto in toto l’impianto accusatorio dei pubblici ministeri vicentini Barbara De Munari e Hans Roderich Blattner. I quindici manager sono stati rinviati a giudizio con le accuse di disastro doloso, avvelenamento delle acque, inquinamento ambientale ed anche di bancarotta fraudolenta per il fallimento della società Miteni nel 2018. Si tratta di quindici dirigenti d’azienda di rilevanza internazionale che fanno riferimento a importati multinazionali come la Mitsubishi e l’Icig, proprietarie della Miteni negli ultimi decenni in cui l’avvelenamento è stato più pesante per l’utilizzo di Pfas di ultima generazione, come GenX e C6O4.
Dunque, il primo luglio prossimo in Corte d’Assise ci sarà il più grande processo per crimini ambientali mai svoltosi nel Veneto, e probabilmente anche in Italia, sia per la pericolosità dei materiali versati che per l’ampiezza dell’area interessata dall’inquinamento e che investe le provincie di Vicenza, Verona, Padova. Mezzo Veneto, per l’appunto. Senza contare che l’area inquinata si sta tutt’ora espandendo e che la presenza di Pfas è stata rilevata recentemente anche nella laguna veneziana. Solo nei prossimi anni riusciremo a quantificare con precisione l’impatto causato dallo sversamento di queste molecole killer nelle falde acquifere. Gli effetti sulla salute dei cittadini che hanno bevuto l’acqua inquinata o che si sono nutriti di verdure locali è già testimoniato da varie ricerche mediche che hanno riscontrato un forte aumento di patologie come tumori ai reni e ai testicoli, coliti ulcerose sino a ictus, osteoporosi precoce, diabete, Alzheimer. I Pfas colpiscono in particolare i bambini e le donne in stato di gravidanza causando aborti e malformazioni nei feti. Un disastro ambientale e sociale le cui conseguenze le pagheremo anche negli anni a venire, in quanto questi acidi perfluoroacrilici agiscono come una sorta di bomba ad orologeria. Una «pandemia chimica» che si accumula nel metabolismo e i cui effetti possono manifestarsi anche a decenni di distanza.

La soddisfazione per questa primo pronunciamento che riconosce le pesanti responsabilità della Miteni non riuscirà ad allontanare la paura di ammalarsi in un prossimo futuro. Così come non diminuirà i disagi di chi non potrà ancora bere l’acqua del rubinetto, continuerà a guardare con sospetto le verdure in vendita nei mercati ed a rinunciare a coltivare l’orto sotto casa. Allo stesso mmodo, il processo non può rimediare i ritardi di una amministrazione regionale che per tanti anni si è dimostrata sorda alle denunce dei residenti che sin dai primi anni del nuovo secolo chiedevano come mai nei prati di Trissino le margherite nascessero con due corolle o con i petali raggrinziti. Solo nel 2013, l’Arpa ha cominciato a studiare il fenomeno, riscontrando ufficialmente la presenza di Pfas nelle falde. Per il rinvio a giudizio, ci sono voluti altri 8 anni. I tempi della giustizia non sono mai quelli della salute e dell’ambiente. Tanto più che nella maggioranza che guida la Regione, di bonifiche ancora non se ne parla.

La Capitaneria di porto «punisce» il comitato No Grandi Navi

Venezia, multa di ventimila euro.

Ventimila euro di multa per affondare il comitato No Grandi Navi. Ventimila euro di multa per fatti accaduti quattro anni fa e che, non hanno dubbi a proposito le attiviste e gli attivisti veneziani, hanno solo lo scopo di stroncare le proteste degli ambientalisti contro questi mostri del mare. Le ingiunzioni inviate dalla Capitaneria di Porto sono datate 4 marzo 2021 ma riguardano fatti accaduti il 24 settembre del 2017, quando centinaia di attivisti si mobilitarono in barca o a piedi, lungo la fondamenta del canale della Giudecca, per protestare contro il via vai delle grandi navi. «Fu una importante manifestazione cittadina ricorda Federica Toninello, portavoce del comitato -. Per l’occasione avevamo costruito un palco galleggiante dove si esibirono molti artisti e dove suonarono vari gruppi musicali. Fu una manifestazione di protesta pacifica e senza violenze. Le grandi navi scelsero di rimanere in porto e ritardarono la partenza, evidentemente vergognose di uscire dalla Marittima, e di ‘inchinarsi’ di fronte alla rabbia delle migliaia di residenti presenti sulle rive e nelle barche». Il canale della Giudecca fu invaso da decine di imbarcazioni a remi, a vela e a motore.

Per dare una risposta a quanti desideravano protestare dall’acqua, il comitato noleggiò sette capienti imbarcazioni. Proprio ai sette ragazzi che avevano preso il timone di queste barche sono arrivate, quattro anni dopo, le multe. Duemila euro a testa più circa sei mila euro di spese legali pendenti per un totale di 20 mila euro da pagare entro fine marzo. «Multe che colpiscono dei ragazzi, tutti ventenni, che svolgono lavori precari e che stanno attraversando un periodo particolarmente difficile a causa della pandemia. Ragazzi che non hanno fatto nulla di male e che, se hanno violato i divieti della Capitaneria, lo hanno fatto assieme a tantissime altre barche al solo scopo di difendere la nostra città e la nostra laguna».

La pandemia e le misure per evitare il diffondersi del contagio rendono difficile organizzare iniziative di sostegno e di autofinanziamento. Per questo il comitato ha deciso di affidarsi alla rete e per aiutare i sette ragazzi a pagare le ingiunzioni, ha aperto un crowdfunding sul sito Produzioni dal Basso col nome «Aiutaci a difendere Venezia Sostieni il Comitato No Grandi Navi».

«Invitiamo tutti coloro che possono contribuire a dare il loro sostegno conclude Federica Toninello -. Come decine di piccole barche hanno fermare i colossi del mare, migliaia di piccole donazioni possono rispondere a questa sorta di vendetta amministrativa che colpisce la parte più giovane e generosa del comitato. Aiutateci a continuare a lottare per Venezia, perché la nostra città non ceda agli speculatori, ma continui ad essere di chi la vive e di chi, pur non vivendoci, la ama».

Le multe non fermeranno le lotte del comitato che ha annunciato per il 10 aprile una iniziativa in Campo Santa Maria Formosa e la costituzione di un «tavolo cittadino» per consentire a residenti e istituzioni di dialogare su un futuro che vada oltre la monocultura turistica.

A Mestre in piazza per chiedere reddito e salute


Proteste. 
A manifestare circa 250 persone tra i quali molti attivisti di Fridays For Future che nei loro interventi hanno sottolineato come la pandemia sia solo una delle conseguenze dei cambiamenti climatici

C’è anche una piazza che va in un’altra direzione. Una piazza dove non si fanno saluti romani, non si urla “non c’è il coviddì”, e non si sfasciano le lapidi dei partigiani. Una piazza dove la prima regola è indossare la mascherina e rispettare la distanza di sicurezza. Questa piazza si è riunita alle 19 di ieri a Mestre, nel piazzale Donatori di Sangue, per ribadire che dalla pandemia non se ne esce se non si cambia quel sistema che è la causa stessa dell’epidemia. Quel sistema che ha mercificato la terra, inquinato l’aria ed in mari, innescato i cambiamenti climatici e che oggi ci pone davanti al ricatto “reddito o salute”.

La manifestazione regionale è stata preceduta, giovedì 29, in piazza Antenore a Padova, da una iniziativa organizzata dalle maestranze dello spettacolo, uno dei settori più colpiti dalle chiusure del Governo ed esclusi dalle misure di sostegno che Regioni ed enti locali hanno varato per fronteggiare la crisi. La protesta si è conclusa con la simbolica “muratura” del portone della prefettura con decine di quei bauli solitamente usati dai tecnici dello spettacolo per riporre le strumentazioni.

Una manifestazione pacifica e colorata, proprio come questa svoltasi oggi nel cuore di Mestre per chiedere “Reddito, salute e futuro per tutt*”. Una manifestazione quest’ultima, lanciata da giovani e giovanissimi, per lo più studenti e studentesse delle scuole superiori o dell’università, e rimbalzata nei social a livello soprattutto individuale per ribadire che ci sono altre ragioni per scendere in strada, oltre quelle delle categorie economiche o dei negazionismi alle quali i media danno ampio spazio, ignorando la complessità di una protesta che va ben oltre la spaccata alla vetrina di Gucci.

“Reddito e salute per tutti!”, “Nessuna va lasciata indietro” “Vogliamo trasporti, sanità e istruzione pubblici e gratuiti per tutte e tutti”, sono alcuni degli slogan che si sono sentiti nella manifestazione. Slogan ben diversi da quelli che si sentono nelle piazze negazioniste o nelle iniziative gestite da organizzazioni di categoria che si limitano a chiedere sostegno per i propri affilati. “Reddito e salute non sono in contrapposizione ma diritti che devono essere garantiti a tutte e tutti spiega la giovane studentessa Anna, attivista del Loco, il Laboratorio Occupato Contemporaneo di Mestre Nei mesi che ci hanno separato dalla prima ondata, il Governo e gli enti locali non hanno fatto nulla per garantire la salute e per salvaguardare il diritto allistruzione in sicurezza e per tutelare lavoratori e lavoratrici.

Non sono stati potenziati i trasporti pubblici, non sono stati individuati altri spazi per la didattica che oggi ritorna ad esserci riproposta on line. Noi chiediamo un cambio di rotta che non è solo funzionale al contrasto del Covid. Chiediamo lo stop degli affitti e delle utenze. Vogliamo reddito per tutte e tutti e l’imposizione della patrimoniale per i ricchi e soprattutto per coloro che hanno approfittato della pandemia per arricchirsi ancora di più”.

Alla manifestazione hanno partecipato circa 250 persone tra i quali molti attivisti di Fridays For Future che nei loro interventi hanno sottolineato come la pandemia sia solo una delle conseguenze dei cambiamenti climatici e probabilmente neppure la più grave che ci attende e di una crisi

globale che investe l’intera economia di un pianeta ancora fondata sul capitalismo fossile. Una crisi in cui nessuno ha la ricetta risolutiva in mano ma che apre interi orizzonti di lotta da costruire.

Venezia, operazione di polizia contro il centro sociale Rivolta. Gli attivisti: «È una ritorsione»

Movimento. Alle prime luci dell'alba un ingente schieramento di agenti e blindati intorno allo storico spazio sociale di Marghera per un'azione in difesa dell'ambiente


Non hanno dubbio alcuno, le attiviste e gli attivisti del Rivolta. La maxi operazione di polizia svoltasi questa mattina, martedì 20 ottobre, dentro la sede dello storico centro sociale di Marghera, non era una perquisizione ma una vera e propria ritorsione per le iniziative portate a termine dalla neonata rete Rise Up 4 Climate Justice. Come quella avvenuta il 10 settembre scorso, con il blocco dell’ impianto Eco-progetto di Veritas dove Regione e Comune vogliono realizzare un nuovo e contestatissimo inceneritore. Oppure quella del 12 settembre che ha visto i Fridays For Future entrare e appendere striscioni dentro gli spazi della raffineria Eni di Fusina. Iniziative che sono state accolte con la massima durezza non soltanto da parte di Eni e Confindustria ma anche dei sindacati confederati che, in un testo congiunto, hanno invocato «tolleranza zero» verso gli attivisti climatici.

Gli effetti di questa «tolleranza zero» si sono visti ieri mattina alle sette quando un nutrito contingente di 150 tra poliziotti, guardie di finanza e carabinieri in assetto antisommossa, supportati da otto mezzi blindati, ha fatto irruzione nel centro sociale, sfondando le porte di accesso e per tre ore hanno messo a soqquadro tutto l’edificio, impedendo ai numerosi attivisti corsi in difesa del loro spazio di entrare.

Alla fine della perquisizione, le forze dell’ordine hanno sequestrato striscioni, vernici e qualche maschera antigas. Come dire: tutto quello che ti aspetteresti di trovare in un centro sociale che fa attività politica.

Il cso Rivolta, i cui spazi sono di proprietà del Comune di Venezia e regolarmente, è il cuore dei movimenti ambientalisti della città, come i Fridays for Future. «Non ci lasceremo certo intimidire da queste operazioni ha dichiarato Vittoria Scarpa, portavoce del cso È chiaro che i grandi movimenti che da tempo stanno chiedendo a gran voce un cambio radicale dell’attuale modello di sviluppo fanno paura. Il tentativo di criminalizzarci risponde ad un tentativo di ribaltare la realtà, indicando come responsabili della devastazione del territorio proprio quei movimenti ambientalisti che hanno avuto il coraggio di puntare il dito sui veri colpevoli».

L’epidemia che tutti stiamo affrontando è emblematica di questo tentativo di distorcere le colpe. «Sappiamo tutti che la pandemia è una conseguenza delle crisi climatica conclude Vittoria Scarpa eppure qualcuno sta gestendo questa crisi in corso proprio tentando di cancellare quei movimenti che continuano a mettere in luce il nesso tra estrattivismo selvaggio, mutamento degli equilibri ecosistemici e diffusione dei virus». Solidarietà al Rivolta è arrivata da tutti i movimenti ambientalisti del Veneto che hanno organizzato presidi davanti alle sedi Eni.

Fridays for Future vs Eni, gli ambientalisti rispondono alle accuse dei sindacati

Ambiente
. Dopo l'irruzione degli attivisti nella Bioraffineria di Marghera è arrivato il comunicato di condanna di Confindustria Veneto, sottoscritto anche dai confederali. Gli ambientalisti rispondono con una nuova azione «Il vero crimine è il green washing di Eni»


Non si è fatta attendere la risposta degli attivisti di Fridays For Future del Veneto al comunicato firmato congiuntamente da Confindustria e dai sindacati confederali Filctem Cgil, Femca Cisl e Uiltec Uil, che hanno bollato come “fatto criminoso” l’occupazione della Bioraffineria Eni di Marghera.

Il fatto era accaduto il 12 settembre scorso, quando un nutrito gruppo di ragazze e ragazzi del Climate Camp che si svolgeva al vicino cso Rivolta, ha simbolicamente invaso l’area dell’impianto industriale appendendo striscioni in cui si denunciava le attività inquinati e climalteranti dell’Eni in Paesi come il Niger, il Mozambico e la stessa Italia. Basti pensare alle 400 tonnellate di petrolio fuoriuscite dal Centro Olio Val D’Agri che hanno contaminato le falde acquifere della Basilicata.
L’iniziativa dei FfF non è stata digerita dal presidente di Confindustria Venezia, Vincenzo Marinese, che ha scritto una dura lettera al prefetto, per chiedere tolleranza zero verso queste azioni. Lettera sottoscritta anche dai sindacati confederali. «Vogliamo difendere tutti insieme il lavoro, la sicurezza dei nostri dipendenti, le imprese e la tradizione manifatturiera di questo territorio. Per questo motivo condanniamo i fatti criminosi avvenuti alla Bioraffineria Eni» dichiara il Presidente di Confindustria Venezia Vincenzo Marinese. «Azioni pretestuose come questa finiscono per nuocere sia al tessuto produttivo che a quello sociale ha dichiarato Marinese- La vera battaglia oggi in corso vede due schieramenti contrapposti: uno pro e l’altro contro il lavoro. Noi, insieme alle organizzazioni sindacali siamo a favore del lavoro».

Chi non ci sta a considerare l’inquinamento come una inevitabile conseguenza del lavoro, sono la ragazze e i ragazzi di FfF che sabato pomeriggio hanno risposto per le rime alla presa di posizione di sindacati e Confindustria rimettendosi la tuta bianca ed occupando l’entrata dell’associazione industriali, al Vega di Marghera, alzando un lungo striscione con la scritta Eni distrugge il pianeta. Stop climate change. Una ottantina i presenti.

«Se il nostro gesto è ‘criminoso’ che dire allora delle azioni di multinazionali come Eni e Shell le cui politiche estrattive sono alla base della crisi ecologica che stiamo vivendo? ha commentato il giovane Sebastiano Bergamaschi A chi ci accusa di aver messo in pericolo i lavoratori, ribadiamo che la nostra azione alla Bioraffineria si è svolta senza arrecare nessun danno agli impianti e senza mettere a rischio la salute delle lavoratrici e dei lavoratori. Lo stesso non si può dire di Eni, che non esita a minare la salute dell’intero pianeta».

Se si entra nell’home page del sito della multinazionale, hanno spiegato i giovani durante la conferenza stampa svoltasi sotto le finestre di Confindustria, l’impressione è quella di una associazione ambientalista come Greenpeace o Legambiente. Non c’è traccia di petrolio ma solo link ad iniziative ecologiche.

«È soltanto un ipocrita tentativo di green washing ha commentato Sofia Demasi. «Le fonti fossili restano il core business dell’azienda: nel 2018 gli investimenti nellʼupstream costituivano il 74% del totale, con un incremento costante della produzione dal 2016 e un ulteriore picco previsto per il 2025. Ma il futuro che vogliamo, l’unico futuro che può avere il pianeta, è un futuro senza fossili. Eni continua a marciare ella direzione opposta. Non è questo il vero crimine?».

A Venezia il ciclone Brugnaro travolge Baretta e resta sindaco


Comunali. Con il 54 % dei consensi l’imprenditore «del fare» guadagna il suo secondo mandato. I 5 stelle sotto il 4% perdono 8 punti. La candidata Visman superata dalla lista civica ecologista

La valanga Zaia trascina con sé anche la slavina Brugnaro. La destra conquista Venezia e lo fa al primo turno, riconfermando il sindaco uscente. La coalizione a supporto di Luigi Brugnaro si è portata a casa quasi il 55 per cento delle preferenze, lasciando il candidato del centro sinistra, Pier Paolo Baretta (sottosegretario Pd all’economia), poco sopra il 29 per cento. Sotto il 4 per cento la candidata sindaca dei 5 Stelle, Sara Visman, superata anche dalla civica ecologista Terra e Acqua di Marco Gasparinetti (4 per cento netto).

Visman si è detta comunque contenta per i risparmi sulla spesa pubblica di cui gli italiani potranno godere grazie alla vittoria sul referendum per il taglio dei parlamentari. Cinque anni fa i grillini avevano portato a casa il 12,8 per cento. Altri tempi, per il partito della Casaleggio & figli che nel resto della Regione hanno fatto ancora peggio, scendendo al 3 per cento e rimanendo fuori dal Consiglio,

Tutta un’altra musica per Brugnaro che, come Luca Zaia, è volato nel conteggio dei voti grazie alla sua lista «fucsia». Una lista che, sempre secondo il sindaco imprenditore di Venezia, non sarebbe né dei destra né di sinistra ma caratterizzata dal «fare».
I fucsia si sono confermati il primo partito in città col 31 per cento dei consensi. Secondo partito in laguna, il Pd con il 19 per cento. In crescita di due punti e mezzo rispetto al 5 anni fa. Costante la Lega al 13 per cento e balzo in avanti per Fratelli d’Italia, dal 2 al 7 per cento. Con un 5 per cento di voti, tornano in consiglio comunale i Verdi dentro la lista Venezia Verde e Progressista che si era schierata a sostegno di Baretta.

Come per le scorse amministrative, i voti all’imprenditore milionario Brugnaro è titolare dell’agenzia di lavoro interinale Umana spa sono venuti soprattutto dalle terraferma. La città d’acqua infatti anche in questa occasione si è schierata per il centro sinistra (52 per cento) confermando che tra il colore fucsia ed il popolo delle calli l’amore non è mai sbocciato.

Popolo delle calli che oramai è ridotto ai minimi termini. L’emorragia dei residenti per far spazio a nuovi alberghi e B&B, durante l’ultima amministrazione 5 mila nuovi abitanti in meno. In compenso, è triplicato il numero di locazioni turistiche, senza contare il nuovo e mastodontico «fronte alberghiero» realizzato con la benedizione di Brugnaro a ridosso della stazione di Mestre.

Favorevole alle grandi navi, al nuovo inceneritore di Fusina imposto da Zaia per bruciare i rifiuti contaminati da Pfas provenienti dal vicentino, il sindaco fucsia è per le «soluzioni facili» e misura il suo operato col solo metro dei «schei». Il suo concetto di democrazia lo ha spiegato lui stesso: «Ho fatto piazza pulita col napalm delle municipalità perché mi avrebbero votato contro».

Vuole una città sicura, spiega. In campagna elettorale si è vantato di essere «quello che ha dato il mitra ai vigili» dimenticandosi di sottolineare che sotto la sua amministrazione Mestre è diventata la capitale veneta dello spaccio e dei morti per droga.

Omofobia no grazie. «Noi non ci stiamo più»


Manifestazione a Padova. Centri sociali e associazioni domani in piazza insieme a Mattias e Marlon, picchiati per un bacio gay

Torneranno là, Mattias e Marlon, colpevoli solo di essersi scambiati un bacio. Torneranno entrambi nello stesso posto in cui hanno subito l’aggressione omofoba. E lo faranno domani sera, con tutte le amiche e gli amici che vorranno dimostrare solidarietà per la violenza subita dai giovani e, soprattutto, per ribadire che episodi come quello accaduto venerdì sera a Padova, non saranno più tollerati.

In tanti hanno già aderito alla mobilitazione lanciata a sostegno dell’appello «Noi non ci stiamo più!», che si svolgerà domani a Padova, nella centralissima piazza delle Erbe, a partire dalle 18,30. Tra i firmatari troviamo Non una di meno, l’Arcigay, i centri sociali del nord est, coalizione civica per Padova (la formazione che ha sostenuto Arturo Lorenzoni, il candidato anti Zaia, sconfitto nelle elezioni di ieri), Europa Verde, Potere al Popolo, vari collettivi universitari di Padova e Venezia e tante associazioni per i diritti umani.
Tra gli onorevoli che si sono esposti per primi a solidarizzare con i due ragazzi, ricordiamo Alessandro Zan, padovano doc e primo firmatario della proposta di legge contro l’omofobia attualmente in discussione in Parlamento. «Da padovano sono profondamente scosso, perché Padova è una città che, in particolare negli ultimi anni, ha fatto dei diritti e dell’inclusione una bandiera ha dichiarato il deputato -. Questo ennesimo attacco, nel cuore di una città all’avanguardia sul rispetto dei diritti, dimostra come la legge contro l’omotransfobia e la misoginia non sia davvero più rinviabile: per questo in ottobre l’approveremo alla Camera, e poi passerà al Senato, dove verrà approvata definitivamente in tempi rapidi».

Proprio la volontà di rispondere a chi continua a dire che nel nostro Paese non esiste un problema di razzismo, è stata la molla che ha spinto Mattias Zouta, 26 anni, di professione pizzaiolo, e Marlon Landolfo, 21 anni, studente universitario, a denunciare l’accaduto ai carabinieri ed a lanciare l’appello alla mobilitazione. «Abbiamo deciso di denunciare l’episodio alle forze dell’ordine e di raccontare a tutti quello che è avvenuto perché siamo stanchi di dover subire violenze omofobe. Vogliamo fare in modo che queste manifestazioni di odio e discriminazione non ci siano più», spiega Marlon in un video postato su Facebook.

Mattias racconta così l’episodio accaduto a lui e al suo compagno, colpevoli solo di essersi scambiati un bacio: «Stavamo passeggiando mano a mano sul Liston, all’altezza del Comune, quando siamo stati avvicinati da quattro ragazzi e due ragazze che hanno cominciato a seguirci insultandoci. Quando gli abbiamo risposto di andarsene e di lasciarci in pace, siamo stati aggrediti fisicamente. Ci hanno gettato a terra e dato pugni in faccia. A Marlon hanno pestato la caviglia e gli sono saltati addosso pestandolo al grido di ‘frocio di merda’. Un nostro amico intervenuto a difenderci ha ricevuto una bicchierata in testa».

Il ragazzo è stato portato in ospedale dove ha ricevuto 5 punti di sutura. Gli inquirenti stanno indagando per identificare gli aggressori tramite le immagini delle telecamere presenti sulla piazza. «Pensiamo anche a quanto accaduto a Willy, ucciso dalla mascolinità tossica e dai comportamenti menefreghisti della collettività e alla diversità ha aggiunto Mattias -. Di episodi di questo genere ne abbiamo visti fin troppi ed è giunto il momento di dire basta». Piena solidarietà ai due giovani, è stata espressa anche dal sindaco di Padova, Sergio Giordani. «Nella speranza che vengano al più presto individuati i responsabili va ribadito che Padova è una città libera che non tollera prevaricazioni. Va confermato l’impegno a ogni livello per combattere ogni discriminazione e forma di violenza anche con adeguati strumenti normativi».

La necessità di una legge contro l’omofobia è stata ribadita anche nell’appello lanciato dai due giovani in cui si sottolinea come ci si trovi oggi ad affrontare un problema che per anni è stato nascosto come polvere sotto il tappeto sino a sviluppare un sistema che educa all’intolleranza ed abitua all’indifferenza. «Un tumore sociale nutrito da chi, ogni giorno, si schiera contro la visibilità e i diritti delle persone non eterosessuali. Ma da oggi, noi non ci stiamo più».

Ciclone Zaia, il governatore stravince. E affossa Salvini


Veneto
. Il governatore uscente prende tre voti su quattro e la sua lista triplica le preferenze della Lega. Oggi spoglio delle comunali di Venezia

Zaia come l’acqua alta. L’onda leghista ha sommerso il Veneto. Un successo superiore alle previsioni, quello registrato in queste amministrative per il governatore in carica. Un successo avallato soprattutto dalla pratica del voto disgiunto. In poche parole, moltissimi elettori avrebbero indicato Luca Zaia come presidente, pur assegnando il loro voto a partiti inseriti in altre coalizioni. «Se l’andamento continua così ha spiegato Paolo Feltrin, responsabile dell’Osservatorio elettorale del Consiglio regionale avremo un numero di voti al solo presidente nettamente superiore ai voti dati alla coalizione». Il che, secondo il tecnico, spiega anche il rallentamento dello spoglio delle schede e nel conteggio dei voti.
I GIOCHI COMUNQUE appaiono chiari. Le ultime proiezioni della Rai, effettuate da Consorzio Opinio, Luca Zaia è dato al 74,2 per cento mentre Arturo Lorenzoni, candidato del centrosinistra, si ferma al 16 per cento. Come dire che sette veneti su dieci hanno votato Zaia presidente. Distanti gli altri candidati. Paolo Girotto di Potere al Popolo è all’1,2 e il pentastellato Enrico Cappelletti non supera il 4 per cento. Una debacle senza scusanti, questa dei Cinque Stelle che nelle precedenti regionali del 2015 erano al 12 per cento e che sembrano arrivati alla fine della pista. Sotto l’uno per cento le altre civiche in lizza, ben lontane dal superare lo sbarramento del 3 necessario per entrare in Consiglio. La valanga Zaia, forte di quasi 25 punti percentuali in più rispetto al 2015, era largamente prevista dagli osservatori. Ci si attendeva di più dal candidato Lorenzoni, la cui campagna elettorale è stata penalizzata dall’essere risultato positivo al Covid a due settimane dal voto.

SCONTATA LA VITTORIA del governatore in carica, favorita anche dalla sua massiccia presenza nei media per l’emergenza Coronavirus, ma va sottolineato come la sua personale vittoria non farà certo piacere a Matteo Salvini. La lista del governatore infatti è data sopra il 47 per cento, come dire che avrebbe vinto anche da solo, mentre la Lega di Salvini non raggiunge il 15. In un comunicato stampa diffuso della segreteria della Lega si afferma che «non ci sono problemi di dualismo» e si plaude la vittoria di Zaia ma, dopo questi risultati, la battaglia per la leadership all’interno del Carroccio rimarrà più che mai aperta. Lo si è visto anche durante la campagna elettorale, quando sostenitori degli opposti schieramenti leghisti sono venuti alle mani, durante la distribuzione dei volantini.

PER QUANTO RIGUARDA il centrosinistra, il Pd risulta il partito più votato con il 17,3 per cento. Un punto in più rispetto al 2015. La lista personale di Lorenzoni ha ottenuto soltanto l’1,6 per cento, sempre secondo le citate proiezioni. Nel flop complessivo del centrosinistra, va sottolineato il successo dei Verdi. Europa Verde si porta a casa un 2,4 per cento che gli frutterà, presumibilmente, il primo consigliere regionale. Ultima nota sulla partecipazione. L’affluenza nel Veneto è stata tra le più alte d’Italia: oltre il 60 per cento, addirittura superiore di 5 punti quella delle precedenti consultazioni. La paura della pandemia non ha scoraggiato gli elettori veneti.

INCASSATA la sconfitta elettorale, al centrosinistra non rimane che attendere i risultati delle Comunali. Una partita importante si giocherà in laguna dove è in palio la poltrona di sindaco di Venezia. Il primo cittadino uscente, il fucsia Luigi Brugnaro, se la gioca con lo sfidante di sinistra, Pier Paolo Baretta. L’obiettivo del centro sinistra è quello di raggiungere il ballottaggio per tentare di aggregare in seconda battuta tutte le altre coalizioni anti Brugnaro che si sono presentate con propri candidati. Se i voti assegnati al consiglio regionale rispecchieranno quelli dati al Comune (lo spoglio inizierà solo domani mattina), Brugnaro dovrebbe farcela ad essere rieletto al primo turno. Ma sarà comunque una sfida all’ultimo consenso, anche in virtù della pratica del voto disgiunto e Brugnaro, in laguna, non è amato quanto Zaia.

INTANTO A TREVISO, feudo dell’elettorato di Luca Zaia, i sostenitori del governatore hanno alzato un grande palco per festeggiare il loro «doge». Chiamavano così anche Giancarlo Galan. Non è finita bene.

La pandemia non ferma il Climate Camp a Venezia


L’azione più spettacolare messa a segno dagli attivisti climatici del Camp è stata quella di giovedì 10 con l’occupazione e il blocco delle attività di EcoProgetto di Fusina


La pandemia non ha fermato il Climate Camp. Si è concluso ieri il campeggio climatico organizzato dai movimenti sociali di Venezia e salito agli onori di cronaca, lo scorso anno, per l’occupazione del Red Carpet della Mostra del Cinema. E si è concluso col botto. Nel pomeriggio, le attiviste e gli attivisti climatici hanno occupato sino a sera la raffineria Eni di Marghera. “È il momento di fermare chi sfrutta e devasta il pianeta hanno scritto su una nota per la stampa Eni è tra le massime aziende italiane responsabili dellestrazione dei carburanti fossili e delle emissioni clima alteranti. La nostra è una azione diretta contro chi provoca il cambiamento climatico”.

Proprio la pandemia, scrivevamo, non solo non ha fermato il Camp ma è stato il punto di partenza per rileggere la crisi, climatica ma anche sociale, che l’intero pianeta sta attraversando. “Il coronavirus è responsabile della prima crisi economica direttamente causata da un fattore ambientale ha spiegato Antonio Pio Lancellotti, direttore del sito Global Project —. Questa seconda edizione del Camp l’abbiamo organizzata proprio a partire da questa riflessione”.
Niente tende sotto le stelle dell’isola del Lido, quest’anno. Soluzione che avrebbero reso impossibile rispettare le norme anti covid. Il Climate Camp si è spostato negli ampi spazi del Cso Rivolta a Marghera, da martedì 8 a sabato 12 settembre, con sedie distanziate almeno un metro e mezzo per assistere ai dibattiti, mascherina obbligatoria e misurazione della temperatura corporea a tutti i partecipanti. Confermata invece la linea “impatto zero” per un Camp totalmente vegano, con riciclo spinto dei rifiuti, alimentazione energetica di esclusiva provenienza dall’impianto fotovoltaico del centro sociale, il più potente di tutta la provincia, e con uso limitato di plastiche. I cambiamenti climatici, qui, nessuno se li è dimenticati.

“Proprio la pandemia ci ha fatto comprendere che non c’è più tempo per le mediazioni continua Lancellotti Con le riforme graduali non andiamo da nessuna parte. Abbiamo già visto in che direzione si sta muovendo la governance per rispondere alla crisi causata dal Covid: green capitalism, ripartenza di tutte le grandi opere e promesse disattese di giustizia sociale. Se vogliamo combattere la crisi economica che incombe e cogliere l’occasione per disegnare una società diversa abbiamo bisogno di nuove forme di welfare dal basso, di transazione ecologica per uscire da una economia ancora basata sui fossili, di diritto alla salute e di reddito garantito”.

Proprio il reddito garantito è stato alla base delle richieste dei lavoratori dello spettacolo, che non è solo luci e musica ma, dietro le quinte, è composto anche da migliaia di lavoratori a tempo determinato costumisti, scaricatori, elettricisti, tecnici, a tanto altro ancora che sono stati i primi a subire le conseguenze economiche del lockdown. Mercoledì 9, questi lavoratori invisibili si sono ritagliati uno spazio sotti i riflettori della Mostra del Cinema, con un partecipato presidio al Lido.

Come per il primo Camp, anche l’edizione di quest’anno ha spaziato tra dibattiti ed azioni, tra riflessioni ed attivismo. Dallo sbarco a palazzo Balbi sul Canal Grande con l’occupazione della sede della Giunta Regionale di cui abbiamo scritto nel Manifesto di sabato 5 settembre sino al sopracitato presidio al Lido. L’azione più spettacolare messa a segno dagli attivisti climatici del Camp è stata quella di giovedì 10 con l’occupazione e il blocco delle attività di EcoProgetto di Fusina. Un progettoquesto, fortemente voluto dal Governatore del veneto Luca Zaia, e che, a dispetto del suffisso “eco”, con l’ecologia non ha nulla a che spartire perché consiste nella riapertura dell’impianto di incenerimento con due nuove linee destinate a bruciare rifiuti speciali ed inquinanti, compresi le contaminazioni da Pfas. Un progetto fortemente contestato dagli ambientalisti veneziani perché ripercorre la collaudata politica regionale di fare di Marghera la pattumiera del veneto.

“Se questo è il futuro che stanno preparando per risollevare il Paese dalla pandemia, noi rispondiamo che non è il nostro futuro ma la riproposizione di quello stesso passato che ha scatenato la pandemia spiega una attivista Gli inceneritori non risolvono il problema dei rifiuti ma rispondono ad interessi economici forti a discapito della salute dei cittadini. Sono il terminale di filiere consumiste ed energivore nemiche del clima, un perno di quel sistema capitalista che è la vera pandemia che l’umanità deve combattere”.

«Zaia smantella la sanità pubblica». Blitz degli attivisti climatici in Regione

Per tutta la mattinata, gli attivisti climatici hanno mantenuto l’occupazione del piano terra di palazzo Balbi

Un vero e proprio abbordaggio al cuore del potere leghista del Veneto: palazzo Balbi. Una trentina di attiviste e di attivisti del Climate Camp ha preso d’assalto su piccole imbarcazioni la sede della Giunta regionale del Veneto. I giovani, in tuta bianca e tutti rigorosamente con la mascherina sul viso, sono riusciti ad entrare dalla porta che si affaccia sul Canal Grande e che, al contrario dell’ingresso principale, non è sorvegliata dalla polizia.

Per tutta la mattinata, gli attivisti climatici hanno mantenuto l’occupazione del piano terra del palazzo, appendendo striscioni che denunciavano la gestione regionale del sistema sanitario. «La pandemia della Lega uccide la sanità», hanno scritto su quello più grande.

«Misure come il lockdown sono diventate la foglia di fico per nascondere lo smantellamento della sanità publica a favore di quella privata ha spiegato un portavoce degli attivisti -. Il presidente Zaia punta a riformare il sistema sanitario veneto, che si basa sulla sanità territoriale, per imporre il modello lombardo incentrato sul privato, tagliando i servizi di base per dirottare i fondi alle grandi aziende ospedaliere. Un sistema di cui, proprio lo scoppio della pandemia, ha evidenziato la pericolosità e che è costato la vita a migliaia di persone». 
Se il sistema sanitario del Veneto ha tenuto, hanno spiegato i giovani, non è per merito di Zaia ma nonostante Zaia. Il contenimento della diffusione del coronavirus nel Veneto va tutto a merito di virologi e di medici come il microbiologo Andrea Crisanti, che hanno avuto il coraggio di disobbedire agli ordini provenienti da Palazzo Balbi, optando per una strategia di gestione diffusa dei tamponi che si è rivelata vincente. Medici che, proprio come è accaduto al professor Crisanti, superata la fase emergenziale, sono stati immediatamente silurati dal governatore. «Quante vite si sarebbero potute salvare se la Lega, che da decenni ha in mano l’assessorato regionale alla Sanità, non avesse ridotto del 39% i posti letti in terapia intensiva che nel 2002 erano 1176 e nel 2019, all’arrivo della pandemia, solo 717?», una delle domande poste dagli attivisti.

Lo stesso si può dire per i 3629 posti letto che sono stati tagliati nei vari reparti ospedalieri, ridotti complessivamente di oltre il 20%. Al contrario, in questo stesso periodo, i posti nelle cliniche private del Veneto sono aumentati del 16%. Concludono gli attivisti: «Siamo convinti che il solo ricorso a misure come il distanziamento sociale non siano risposte sufficienti alla pandemia. Come attivisti climatici chiediamo che vengano superate le logiche neoliberiste che hanno portato alla mercificazione di diritti universali come quello alla salute. Che poi sono le stesse logiche che hanno generato i cambiamenti climatici e contribuito alla diffusione di pandemie come il Covid».

Mascherine, distanziamenti e pieno rispetto delle norme anti Covid saranno anche alla base del secondo Climate Camp che si svolgerà anche quest’anno a Venezia, dall’8 al 12 settembre. Niente campeggio all’isola del Lido, ma una serie di incontri negli ampi spazi del centro sociale Rivolta a Marghera. Come già per la prima edizione, parteciperanno delegazioni dei principali movimenti climatici e ambientalisti da tutta Europa. Saranno incontri ad impatto zero: cucina rigorosamente vegana, energia elettrica proveniente da impianti solari, raccolta differenziata e, naturalmente, niente plastica,

A Venezia tornano le navi-crociere, ma in Laguna scatta la protesta

È un vero proprio “no pasaran” quello lanciato dal comitato No Grandi Navi di Venezia contro l’ipotesi del Governo di riaprire la laguna al traffico crocieristico. “Non abbiamo mai accettato prima la presenza di questi megamostri che hanno devastato il fragile ecosistema lagunare spiega Tommaso Cacciari portavoce del comitato -, la accettiamo ancora meno in questo momento di grave crisi sanitaria in cui le navi si sono rivelate bombe ad orologeria del contagio. Ci siamo già dimenticati di quando questi lazzaretti galleggianti navigavano di porto in porto alla disperata ricerca di un approdo che gli veniva costantemente negato?”.

Il decreto del Governo (Dpcm) volto a disciplinare la proroga dello stato di emergenza sanitaria sino al 15 ottobre prevede infatti la riapertura di spazi considerati vitali per l’economia come discoteche, fiere e crocieristica. Il Dpcm doveva essere varato in questi giorni, ma il Governo si è preso una settimana di tempo per valutare l’andamento della curva dei contagi che ha registrato in Italia come in Europa un preoccupante incremento. Ma tutto lascia presagire che il nuovo Dpcm sarà approvato entro il 9 agosto, dando il via libera alle sopracitate attività.

Lo ha auspicato lo stesso ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli (5stelle): “Credo che le crociere possono ripartire e dare un segnale per tutta l’economia ha dichiarato il ministro -. Attualmente ci sono quattro navi pronte a ripartire seguendo il protocollo di sicurezza”. Chi non ha dubbio alcuno che le Grandi Navi avranno presto il via libera, è il comitato No Navi. D’altra parte, basta cliccare sui siti delle grandi compagnie come la Costa o la Msc Cruises per constatare che sono già in vendita biglietti per le crociere in partenza da Venezia sin da sabato 15 agosto.

“Queste compagnie multimiliardarie hanno i tentacoli ben estesi dentro le cosiddette stanze del potere continua Cacciari e, pur di non perdere gli introiti della stagione, sono pronti ad andare in deroga ai più elementari protocolli di sicurezza. Come si fa a far mantenere le distanze a 4500 passeggeri più l’equipaggio che si muovono in corridoi larghi poco più di un metro? Per non parlare degli sbarchi nei porti. Dovrebbero fare il tampone e tutti ogni volta che scendono o risalgono nella nave”.

La ventilata decisione del Governo di riportare le grandi navi in laguna, senza curarsi degli incidenti che avevano caratterizzato la scorsa stagione e del rischio di ripresa della pandemia, mette in difficoltà tutto il centro sinistra veneziano che si sta avviando ad una difficile competizione elettorale per le amministrative. Se l’attuale sindaco fucsia, Luigi Brugnaro, che sul Covid la pensa come Bolsonaro e Trump, si è detto “felicissimo” per la riapertura della stagione crocieristica, non è così per il suo rivale Pier Paolo Baretta, parlamentare del Pd e sottosegretario al ministero dell’Economia, che si è espresso in molte occasioni contro la presenza della grandi navi in laguna e che è sostenuto da una coalizione che comprende anche verdi e ambientalisti.

L’imbarazzo si allarga anche ai 5Stelle locali che, se stanno ancora litigando sul candidato da opporre a Brugnaro, sono comunque tutti d’accordo che le grandi navi se ne devono stare lontane da piazza San Marco, contraddicendo la posizione del loro stesso ministro.
Chi non chiede voti ma offre mobilitazione è il comitato No Navi. “Non possiamo e non vogliamo tornare come eravamo prima. annuncia in una conferenza stampa svoltasi ieri mattina una ragazza

col volto coperto da una passamontagna colorato -. Pretendiamo una progettualità diversa ed una economia equa e compatibile con lambiente. Ma se si ostinano a non ascoltarci promettiamo un ferragosto rovente. Impediremo alla Costa Deliziosa di attraccare a Venezia sbarrandole l’ingresso in laguna con le nostre barche ed i nostri corpi. Arriveremo anche a compiere azioni di sabotaggio contro la nave. Stavolta non passeranno”

I decreti sicurezza dietro il focolaio dell’ex caserma di Treviso

Covid-19. I migranti hanno manifestato per il rischio contagi. Ora la Lega li accusa. E già a giugno le ong denunciavano il sovraffollamento nel centro, dovuto all'abolizione degli Sprar

Succede quando l’accoglienza finisce in caserma, quando il Covid non esiste e, se esiste, lo diffondono i migranti. Succede al centro di accoglienza situato nell’ex caserma Serena di Dosson di Casier, piccolo borgo a ridosso di Treviso, oggi trasformatosi in uno dei più pericolosi focolai di infezione del Veneto.

Gli ultimi tamponi effettuati dall’Ulss tra venerdì e sabato mattina hanno accertato la presenza di 137 positivi su 297 ospiti testati della struttura.

IL FORTE RISCHIO di diffusione della pandemia tra i migranti ammassati nei dormitori comuni dell’ex caserma era già stata denunciata dalle associazioni per i diritti umani sin da metà giugno. Un operatore della struttura appena rientrato dal Pakistan era stato spedito a lavorare senza fargli rispettare il periodo di quarantena.

Per paura di perdere il lavoro, nella mensa della struttura, l’uomo nascondeva la febbre con le Tachipirine. Solo al momento del suo ricovero in ospedale, è stato scoperto positivo al Covid-19.

I MIGRANTI HANNO organizzato anche alcune manifestazioni di denuncia del rischio di diffusione della pandemia, ma non sono stati ascoltati dal sindaco di Treviso, il leghista Mario Conte, che si è opposto a qualsiasi ipotesi di trasferimento e di smistamento degli ospiti in strutture più piccole, minimizzando la questione, invocando un impossibile coprifuoco e tacciando gli ospiti di ingratitudine.

Il risultato è quello che oggi è sotto gli occhi di tutti. L’infezione si è propagata e ora quasi metà degli ospiti dell’ex Serena sono stati contagiati.

«Ma i migranti costretti a vivere in quel posto orribile che è l’ex caserma Serena non sono untori ha commenta Monica Tiengo dell’Adl Treviso Sono le vittime dei decreti sicurezza voluti da Salvini. Le vittime di un sistema che li vuole prigionieri in uno dei più grandi hub della regione. Fin dalla sua apertura chiediamo che quel posto venga chiuso e che i richiedenti asilo vengano distribuiti in strutture più piccole e dignitose. E invece hanno fatto di tutto per favorire la diffusione del virus, così che oggi possono dare la colpa del Covid ai migranti e trasformare la paura in voti».

Il centro situato negli spazi dell’ex caserma Serena è gestito dalla srl Nova Facility, una società sorta sulle ceneri dell’impresa di costruzione Pio Guaraldo spa, chiusa nel 2017 per fallimento con un buco di svariati milioni di euro dopo aver gettato nel lastrico centinaia di creditori.

Un anno fa, la gestione del centro gli era stata soffiata da una cooperativa napoletana, la Marinello. La faccenda finì in tribunale. Il giudice diede ragione alla Nova Facility che tornò a gestire l’ex caserma. La nuova amministrazione di Treviso le ha affidato anche tutti i servizi sociali della città.

I MIGRANTI POSITIVI dell’ex Serena sono diventati in Veneto un fertile terreno di battaglia elettorale e hanno scatenato nei social la rabbia delle destre che imputano la diffusione del contagio ai migranti. Lo stesso presidente della Regione, Luca Zaia, ha dichiarato: «All’ex caserma Serena c’è

un focolaio di coronavirus perché ci sono delle persone che hanno dato vita al focolaio».

Il presidente uscente ha invocato l’immediata chiusura del centro, dimenticandosi che la struttura era stata fortemente voluta da una amministrazione comunale leghista, da una giunta regionale leghista e da un ministro leghista.

Glielo ha ricordato il suo antagonista alla carica di presidente del Veneto, Arturo Lorenzoni: «L’abolizione del sistema Sprar, per cui vanno ringraziati Salvini e la Lega, ha creato i presupposti per questi mega centri di assembramento e le condizioni per potenziali situazioni di conflitto. Io credo sia urgente lo svuotamento in sicurezza della caserma Serena, che rappresenta un modello di accoglienza superato e foriero di problemi per chi è accolto e per chi accoglie. Mettiamo in atto un’accoglienza diffusa, gestibile e a misura della dignità delle persone che è anche l’unica capace di fermare la diffusione del virus».

Venezia, giovane manganellato per una battuta

Abusi in divisa . Un riferimento ironico ai fatti di Piacenza è bastato a scatenare la reazione di due Carabinieri che hanno inseguito e manganellato un ragazzo. Lanciato per martedì un presidio per denunciare i fatti

“Prossima fermata Piacenza!” E’ bastata questa battuta per scatenare la reazione violenta e la manganellate di due carabinieri. E’ accaduto a Venezia, nella notte tra il 24 e il 25 luglio.

Il giovane che ha denunciato il fatto è Jacopo Povelato, 27enne attivista del Laboratorio Morion, che rincasava dopo aver trascorso la serata al centro sociale di Venezia. Il fatto è accaduto all’imbarcadero della Palanca, all’isola della Giudecca. Il canale noto al mondo perché porta le contestatissime Grandi Navi a fare l’inchino a piazza San Marco.

Il giovane, accompagnato da due amiche, e due militari dell’arma, uno dei quali è il maresciallo Buttà di stanza all’isola di Sacca Fisola (che si trova una fermata dopo), erano a bordo del vaporetto della Linea Notturna che collega la Giudecca a Venezia. I cinque si conoscono e si salutano. Alla Palanca, i tra ragazzi scendono. Jacopo si gira e sorridendo dall’imbarcadero si rivolge ai carabinieri rimasti a bordo. “Prossima fermata Piacenza!” gli dice sorridendo, alludendo ovviamente ai noti fatti di cronaca della caserma emiliana che ha portato all’arresto di quelle che sono state chiamate le “mele marce dell’Arma”.

Una battuta magari discutibile ma che ha causato una reazione spropositata da parte dei militari che sono saltati giù dal battello prima che il marinaio chiudesse il barcarizzo e hanno rincorso il ragazzo, placcando letteralmente il sorpreso Povelato che ha provato a divincolarsi. Un militare gli ha chiesto i documenti, l’altro, il maresciallo Buttà, più sbrigativo, ha estratto il manganello e gli ha rifilato una violenta manganellata alla schiena. 

Un colpo inaspettato ed a tradimento quello del maresciallo – spiega Chiara Buratti, che rincasava con il giovane – Jacopo non aveva reagito all’aggressione dei carabinieri. Inoltre, era girato di spalle perché si era divincolato dalla presa e stava procedendo verso casa”.

Dopo il colpo, i due militari si sono allontanati senza procedere con l’identificazione del ragazzo. “Si sono immediatamente resi conto di aver fatto una grandissima fesserie, picchiando un ragazzo che non aveva fatto niente se non lanciare una battuta” sostiene Chiara che con l’amica ha subito accompagnato Jacopo al pronto soccorso dove il giovane è stato medicato e gli è stato refertato un “trauma da aggressione”.

“Nei prossimi giorni andrò in Procura a denunciare quanto accaduto – ha dichiarato ai giornalisti il giovane -. Questo episodio dimostra, caso mai ce ne fosse bisogno, che non è un problema di mela marce e che gli abusi in divisa non accadono solo a Piacenza. Tra l’altro, la mia era solo una battuta fatta ad una persona che abbiamo conosciuto in molte manifestazioni, si era sempre dimostrata amichevole e con la quel ci siamo spesso scambiati sfottò a vicenda. Il mio battuta poteva anche non essere gradita, ma la reazione a manganellate è stata di sicuro esagerata. Senza contare che mi è stata data a freddo ed alle spalle”.

Martedì, il Laboratorio Morion ha chiamato un presidio a sostegno di Jacopo Povelato con la parola d’ordine “Prossima fermata Piacenza?”

Vogliamo continuare a raccontarci la storia di qualche caso raro, isolato, quando parliamo di abusi in divisa? – si legge nel comunicato stampa diffuso dal Morion – Vogliamo continuare a berci la favola per cui gli assassini di Cucchi, di Uva, di Aldrovandi, i macellai di Genova hanno agito per cause di forza maggiore? Una reazione come quella contro un nostro compagno ieri sera non è in alcun modo tollerabile, è un fatto agghiacciante e di una gravità estrema, che testimonia il sentimento di onnipotenza e impunità che provano le forze dell’ordine”.

“Manganellare un ragazzo per strada – continua il comunicato – perché ha osato fare una battuta su quello che è successo a Piacenza non è normale, non può succedere: il prossimo passo quale sarà, estrarre la pistola? Quanto dobbiamo sopportare ancora prima di renderci conto che la storia degli abusi in divisa è un fatto endemico, una malattia da estirpare con decisione una volta per tutte? Non siamo più disposti a tollerare in silenzio fatti di questa gravità: quello che è successo non può accadere ancora e non può passare per un errore!”

«Venezia merita di più. E non un uomo solo al comando»

Intervista. Il sottosegretario Pier Paolo Baretta, candidato sindaco del centrosinistra: «Brugnaro ha fallito. Il lockdown ci ha insegnato molte cose. Una su tutte, che il modello economico precedente non sta più in piedi e che è impossibile pensare di ritornare come eravamo prima»

Pier Paolo Baretta, sottosegretario all’Economia del governo Conte, a lungo dirigente sindacale della Fim Cisl e poi della Confederazione, è il candidato sindaco di Venezia di una coalizione che comprende il Partito democratico, Italia viva, Azione e altri “moderati”, un gruppo di liste civiche e la lista Verde e Progressista (che unisce i civici di sinistra, Europa Verde I Verdi, Art. Uno, Sinistra Italiana, Possibile, Rifondazione, Volt e Italia In Comune). Un’alleanza motivata dalla necessità di opporre un fronte solido e articolato al rampante padrone-imprenditore e sindaco uscente Luigi Brugnaro, sostenuto dalla Lega di Salvini e Fratelli d’Italia. Si vota domenica 20 e lunedì 21 settembre, in concomitanza con le regionali. In lizza ci saranno altri candidati outsider come Marco Gasparinetti per la civica Terra e Acqua e Giovanni Andrea Martini per Tutta la Città Insieme. Tutto da decidere per i 5 Stelle che non hanno ancora indicato il loro candidato.

Quale è il suo giudizio su questi 5 anni di amministrazione Brugnaro?

Di inadeguatezza. Anche a voler prescindere dall’evidente scarto tra programma e risultati, Brugnaro non è mai andato oltre una gestione quotidiana della città, insufficiente per una realtà complessa come quella di Venezia. Il fallimento è evidente proprio nei punti più marcati della sua campagna elettorale come la sicurezza. Vogliamo poi parlare del turismo? Brugnaro ha assecondato e favorito una fruizione di massa senza gestire i flussi. Questo turismo mordi e fuggi ha asfissiato Venezia e causato disagi a non finire ai residenti. La tutela dell’ambiente è stata ignorata mentre dovrebbe essere una priorità assoluta. Ma il fallimento lo si può misurare anche sul piano economico, dalle mancata rigenerazione di Porto Marghera, dove tutto è ancora bloccato per responsabilità del Comune oltre che della Regione Veneto, alla mancata valorizzazione di una risorsa potente come l’artigianato locale.

La popolarità di Brugnaro è calata soprattutto durante il lockdown, proprio nel momento in cui gli amministratori sono stati beneficiati da una visibilità mediatica senza precedenti. Come lo spiega?

Il lockdown ci ha insegnato molte cose. Una su tutte, che il modello economico precedente non sta più in piedi e che è impossibile pensare di ritornare come eravamo prima. Durante questo periodo emergenziale, la giunta ha dimostrato tutta l’inadeguatezza cui accennavo prima. Per esempio nella gestione confusa del trasporto pubblico che ha causato non solo disagi ma anche rischi per la salute dei residenti. Il problema di fondo è sempre lo stesso. Venezia merita una strategia complessiva ed una visione prospettica che va oltre le capacità dell’attuale amministrazione. Pensiamo solamente alla produzione culturale. Un capitolo completamente trascurato ma che rappresenta un realtà viva, naturalmente presente nel nostro territorio, che va sostenuta e valorizzata.

Lei proviene da una lunga militanza nel sindacato metalmeccanico. Che futuro vorrebbe dare a Marghera?

Marghera è una grande risorsa per tutti, soprattutto in funzione del suo porto. Oggi non possiamo

certo pensare di scavare nuovi canali l’equilibrio idrogeologico della laguna è imprescindibile ma ci sono tanti spazi liberi da valorizzare e che possono diventare poli di attrazione per industrie green come quella digitale. Per rinnovare ed attrarre investitori sia italiani che stranieri, sarà utile lo strumento delle Zone Logistiche Speciali che il governo ha istituito a Marghera ed esteso a Murano. Il comune non ha mai dato un ruolo a questa agenzia che è invece uno strumento indispensabile per potenziare l’identità produttiva della città. In prospettiva, vedo Venezia come il polo della cultura, Marghera quello dell’innovazione e Mestre quello della città metropolitana.

Un problema molto sentito a Venezia è quello delle Grandi Navi. Lei quale soluzione propone?

La prima cosa da sottolineare è che il Covid ha, per ora, ridimensionato il problema. Tutti gli studi affermano che il mercato difficilmente riprenderà come prima. La mia proposta, circa le alternative all’attuale situazione, è quella di comparare i progetti alternativi per trovare la soluzione migliore tenendo fermo che non si scavano nuovi canali, si rispetta l’idrogeologia della laguna e si pone attenzione all’inquinamento.

Altro capitolo dolente: il Mose.

A questo punto molti pensano che ci sia da sperare che funzioni. Ci sono problemi ancora aperti che vanno affrontati e risolti. In via preliminare servono serie indagini sull’aspetto tecnologico e sull’impatto ambientale, anche alla luce dei mutamenti climatici in corso. Anche un suo eventuale funzionamento a regime dovrà essere continuamente monitorato sotto questi aspetti.

Una delle prime azioni di Brugnaro, è stata quella di togliere tutte le deleghe alle municipalità dopo decenni di sviluppo del decentramento.

La mia idea di amministrazione non è certamente quella di ‘un solo uomo al comando’. Le municipalità sono centrali, vanno ripristinate e valorizzate, come le consulte e i forum, anch’essi tranciati da Brugnaro, e assicurare spazi adeguati alla ricca rete associativa della città, pure essa svalorizzata e ostacolata. Bisogna riportare i cittadini al centro della loro e nostra città.

Miracolo in Laguna, il Mose si alza ma con il mare piatto

Il test delle 78 paratoie contro le alte mare a Venezia è riuscito. Conte: non è un nostro progetto ma ormai siamo all’ultimo miglio. L’esultanza smodata del sindaco Bugnaro. La protesta navale degli ambientalisti

Nella tarda mattinata di ieri, tra le 11 e mezzogiorno, per qualche lungo minuto, la laguna di Venezia ha cessato di esistere come laguna. Una barriera di 78 paratoie lunga un chilometro e 600 metri,
l’ha separata dal suo mare, troncando un equilibrio creatosi 6 mila anni fa, quando le acque cariche di detriti che scendevano dalle Dolomiti crearono un ambiente umido che non ha aveva uguali al mondo.

A premere il simbolico bottone che ha dato il via a questo primo test del Mose, è stato il premier Giuseppe Conte, a bordo di una motonave carica di vip della politica e dei vertici del consorzio. Fuori, una quindicina di piccole imbarcazioni cariche di ambientalisti veneziani, ingaggiava una autentica battaglia navale con la flotta di lance e barconi, più due elicotteri, schierata dalla polizia a scorta della motonave.

Che le paratoie si alzassero e, soprattutto, rientrassero nei propri alvei dopo l’emersione, non era affatto scontato. Le prove generali, una settimana fa, non erano andate affatto bene ed erano pochi i politici locali, anche quelli da sempre favorevoli al progetto, che si erano sbilanciati oltre un «auguriamoci che vada tutto bene», come ha laconicamente dichiarato il presidente della Regione, Luca Zaia.

Entusiasta dell’opera solo Luigi Brugnaro, sindaco della città e uno dei cinque attuali commissari del Mose: «Opera gigantesca, frutto dell’ingegnosità italiana e che non ha alternative». Ritardi, tangenti, inchieste, retate...? «Sono i mali dell’Italia. Tutta colpa del Governo. La politica degli incapaci mi fa schifo. Noi siamo per il fare».

Assai più cauto il premier Conte. «Questa non è una inaugurazione. Siamo venuti qui per capire a che punto sono i lavori di quest’opera tanto criticata quando auspicata e rallentata nella sua esecuzione da corruzioni e malaffare. Il nostro approccio è funzionale. Non siamo stati noi a a progettarla ma oramai siamo arrivati all’ultimo miglio e non resta altro da fare che completarla». Al contrario di Brugnaro che etichetta gli ambientalisti che protestavano in barca come «una sorta di no vax», Conte spende qualche parola anche per i manifestanti che in quel preciso momento stavano facendo a «speronate» con le lance della polizia.

«È giusto e comprensibile che ci sia una visione articolata e dialettica della questione. Ma anche chi protesta dovrà convenire che è nell’interesse di tutti, a questo stato dei lavori, augurarsi che l’opera funzioni. Tutti noi abbiamo davanti gli occhi le drammatiche immagini dell’acqua granda di novembre. Proprio quegli avvenimenti ci hanno spinto a finanziare il completamento dell’opera. Ora speriamo che funzioni». Già, speriamo. Perché, test o non test, che il Mose funzioni è ancora tutto da dimostrare. La prova è stata appositamente effettuata nelle esatte condizioni in cui le paratoie non saranno mai alzate: assenza di vento di scirocco (quello che sospinge l’acqua in laguna), morto di marea, bassa pressione e condizioni meteo ideali.

«Come se un collaudatore provasse un nuovo modello di fuoristrada nel salotto di casa sua invece

che su un terreno accidentato ha commentato Tommaso Cacciari del comitato No Navi che ha organizzato la manifestazione di protesta -. Questo test è stato una buffonata. Una farsa utile solo per ottenere altri finanziamenti. Per far alzare le paratoie han dovuto riempire l’Isola Nuova di generatori perché tutta l’energia elettrica della città non era sufficiente. Vogliamo vedere cosa succederà con un vento a 120 chilometri l’ora e una spinta di marea eccezionale come lo scorso novembre. Ci limitiamo a sperare che funzioni? Ma il punto poi, non è nemmeno questo. Il vero punto è chi salverà Venezia e la sua laguna».

Per scavare il Mose, le bocche di porto sono state ampliate e cemetificate, incrementando il numero e le intensità delle maree. L’opera ha assorbito tutte le risorse destinate a salvaguardare la laguna, comprese le bonifiche di porto Marghera. Sei miliardi di euro sono stati spesi per scombinare l’equilibrio idrico della laguna invece di ripristinarlo. Le paratoie, ammesso che funzionino nel migliore dei modi, risparmieranno ai veneziani di infilarsi gli stivali per quei 5 o 6 giorni all’anno di maree eccezionali. Ma la città oramai va sotto per 30 o 40 giorni perché la sua laguna non la difende più. Chi salverà Venezia?

L'ex commissaria Via: «Venezia non si salva così. Conte avvii la revisione del progetto»

Ci sarà anche lei, tra i pochi vip invitati alla cosiddetta «inaugurazione» del Mose, venerdì mattina alle bocche di porto di Venezia. Ci sarà anche Andreina Zitelli, che nel 1998, nella sua veste di commissaria referente della Valutazione di impatto ambientale e Responsabile dei rapporti con gli esperti internazionali stese il corposo referto, ben 440 pagine, in cui i tecnici davano parere negativo sull’opera, evidenziandone tutte quelle criticità e manchevolezze che negli anni successivi sono puntualmente emerse.

Come mai ha accettato l’invito all’inaugurazione?
Che inaugurazione? Averla chiamata così dimostra solo l’inadeguatezza della ministra per le infrastrutture, Paola De Micheli, e del suo entourage. Il Mose non è affatto concluso. Mi auguro che il premier Giuseppe Conte dimostri più buon senso, prenda atto delle criticità dell’opera e avvii un serio processo di revisione del progetto.


In molti si aspettano piuttosto una cerimonia dai toni trionfalistici.
Sarà così per il presidente della Regione, Luca Zaia, il sindaco Luigi Brugnaro e tutti coloro che sono stati i veri responsabili di questo progetto devastante. Consideriamo anche che siamo sotto elezioni. Ma Conte è estraneo al percorso del Mose. Mi auguro quindi che lanci un segnale per un cambio di rotta. O perlomeno, ci spero. Che l’opera sia inadeguata oramai è chiaro a tutti.

Crede che le paratoie non si solleveranno?
La paratoie sono solo l’aspetto più visibile. L’inadeguatezza dell’opera sta nel fatto che è rigida su un ambiente dinamico come la laguna. Non tiene conto dell’innalzamento del mare causato dai cambiamenti climatici, ad esempio. Anche se oggi le paratoie si alzano, non sappiamo se lo faranno domani. Non sappiamo come reagirebbero in caso di maree eccezionali o brutto tempo. Teniamo presente che il Mose non ha ancora un progetto esecutivo. I lavori sono andati avanti per stralci. E senza mai tener conto della corrosione marina, delle incrostazioni biologiche. Gli ambientalisti sottolineavano che i fautori del Mose non hanno tenuto conto dell’impatto dell’opera sull’ambiente. E avevano ragione. Ma non hanno tenuto conto neppure dell’impatto dell’ambiente sull’opera.

Previsioni per venerdì?
Che si alzino o no le paratoie, il Mose non è pronto. E non sarà certamente lui a difendere Venezia dalle acqua alte.

Previsioni tra dieci anni?
Il Mose giacerà abbandonato sul fondo della laguna e un governo che dovesse provvedere alla salvaguardia della città dovrà fare i conti con un grattacielo di cemento dismesso e piantato nelle parte più delicata della laguna come le bocche di porto

Un test per il Mose. Ma la chiamano inaugurazione

L’hanno chiamata «inaugurazione». Non è la prima per una Grande Opera come il Mose che, sino ad oggi almeno, più che a salvare Venezia dalle acque alte è stato utile solo ai politici di governo per farci passerella. In realtà quello che si svolgerà nella mattinata di domani, nella bocche di porto tra il Lido e Punta Sabbioni, altro non è che un test di sollevamento simultaneo delle paratoie mobili. Test che era stato programmato per la fine di giugno, sull’onda dell’emergenza causata dall’acqua granda dello scorso novembre, ma che è slittato a domani per una serie di problemi intercorsi alle paratoie, alcune delle quali si sono infossate nella sabbia e non ne volevano sapere di fare il loro dovere. Ci proveranno appunto domani, in condizioni meteo ideali, senza forte vento e nell’ora del «morto d’acqua».

Non solo la sabbia. Anche le incrostazioni di organismi lagunari, come le patelle o le vongole, ci hanno messo del loro, così che alcune paratie sono già da sostituire pur se non sono ancora mai state messe in funzione. Il che ci porta a ricordare che, anche qualora l’opera funzionasse, i costi di manutenzione ordinaria, inizialmente stimati sui 2 milioni di euro all’anno, saranno superiori ai 100 milioni. Di quella straordinaria, invece, nulla si può dire perché il Mose un progetto esecutivo unitario non ce l’ha. E non lo ha mai avuto.

L’opera, nata dal «Progettone» per la salvaguardia partorito dopo la grande alluvione del ’66, si è barcamenata sino ad oggi tra stralci e rattoppi, bypassando, grazie a un rubinetto finanziario sempre aperto da parte del governo, norme e leggi a difesa della città e del suo ambiente: dalla riforma della Legge Speciale per affidare i lavori a un concessionario unico, voluta da un presidente del consiglio che si chiamava Bettino Craxi, sino alla Legge obiettivo di berlusconiana memoria che ha consentito di avviare i lavori veri e propri in laguna dopo un’altra inaugurazione, quella del 14 maggio del 2003, nonostante il parere negativo della Via e degli esperti internazionali.

Il Mose doveva essere concluso nel 2012 e costare «solo» 2 miliardi e mezzo di euro. Adesso si parla del 2021 e di oltre sei miliardi di euro in più. In mezzo, tra queste cifre e queste date, ci sono il susseguirsi di commissari (attualmente ce ne sono ben cinque in carica), inchieste della magistratura e retate come quella del 4 giugno 2014 che ha portato all’arresto di Giancarlo Galan, già presidente della Regione Veneto e altri noti politici e imprenditori.

In tutto questo tempo, i lavori dell’eterna incompiuta sono andati avanti come se niente fosse successo e senza terminare mai. In pochi, oltre ai soliti ambientalisti, hanno pensato di mettere in discussione la bontà dell’opera. Per molti invece la colpa doveva essere solo di qualche mela marce che aveva inquinato il sistema. Nessun governo ha avuto il coraggio di ammettere che l’errore stava alla base: coprire di soldi un consorzio come il Venezia Nuova che era allo stesso tempo controllato e controllore, e cercare di combattere a suon di cemento un ambiente fragile, fondato sull’equilibrio tra terra e acqua come la laguna veneta, che andava invece tutelato.

«L’inserimento del Mose nel decreto Semplificazioni va letta in questo senso – denuncia Stefano Micheletti, portavoce dell’assemblea No Mose che ha già annunciato una manifestazione di protesta in occasione della cosiddetta ’inaugurazione’ -: il Consorzio potrà continuare ad assegnare appalti senza gara, nonostante le richieste dell’Unione europea. Il famoso rubinetto rimarrà aperto, dirottando ai privati il denaro che dovrebbe servire a salvaguardare una città unica al mondo. Ma d’altra parte, è proprio a questo che il Mose serviva. Non certo a salvare Venezia dalle acqua alte».

Massacrato dal branco, esultanza sui social

Pestaggio. Jesolo, giovane tunisino in fin di vita. La vittima avrebbe disturbato la movida notturna in stato di ebrezza. Tre gli aggressori

Inseguito e ridotto in fin di vita a furia di botte per aver infastidito i clienti seduti ai tavoli di un bar. È quanto accaduto a Jesolo ad un 38enne tunisino residente a Padova, attualmente ricoverato nel reparto di terapia intensiva allospedale di Mestre. I sanitari non hanno ancora sciolto la prognosi e l’uomo versa in serio pericolo di vita per il gravissimo trauma cranio-facciale riportato.

I carabinieri hanno identificato tre degli aggressori grazie alle telecamere di sorveglianza. Si tratta di trentenni incensurati di Jesolo che sono stati accusati di lesioni personali gravissime in concorso. Accusa che potrebbe diventare anche omicidio colposo nel caso la vittima non sopravvivesse al pestaggio.

Il fatto è accaduto alle 3,50 del mattino di giovedì 2 luglio nella centralissima piazza Milano, cuore della «movida» estiva jesolana. Secondo alcune testimonianze il 38enne tunisino, a torso nudo e in palesi condizioni di ebbrezza alcolica, avrebbe infastidito e insultato gli avventori di un locale, lanciando anche una bottiglietta di vetro che comunque non ha colpito nessuno.

Quando il 38enne si è allontanato, un gruppo di giovani avventori del bar si è immediatamente messo al suo inseguimento, e una volta raggiunto, ha cominciato a picchiarlo violentemente, continuando a massacrarlo di botte anche quando la vittima era stesa a terra e non dava più segni di reazione. Tutto si è svolto senza che nessuno intervenisse per fermarli. Il pestaggio è stato così violento che anche i tre giovani veneti hanno riportato alcune lesioni, sia pure leggere, come escoriazioni alle mani e una frattura ad un dito.

Nessuno dei passanti è intervenuto per fermare l’aggressione, abbiamo scritto, ma qualcuno non ha perso l’occasione di filmare la scena che è immediatamente finita sui social e sui siti dei quotidiani. 52 secondi di violenza inaudita e gratuita cui fanno da sfondo le urla della vittima e i commenti di chi stava registrando col cellulare. «Madona se i ghe ne ga dà, fioi» («Madonna se gliene hanno date, ragazzi!») dice una voce femminile mentre una voce maschile le risponde, poco prima di fermare il video: «’ndemo via, dai!».

Un pestaggio questo di Jesolo che segue di pochi giorni quello accaduto nella notte tra giovedì 25 e venerdì 26 luglio a Pescara, quando un gruppo di sette parsone ha aggredito un giovane gay colpevole di tenere per mano il suo compagno.

E come per Pescara, il grave episodio di violenza consumatosi a Jesolo ha avuto come riscontro prese di posizioni quanto meno tiepide, se non addirittura favorevoli agli aggressori da parte delle istituzioni e degli amministratori. Così, come il sindaco di Pescara si è rifiutato di manifestare solidarietà al ragazzo picchiato nella sua città, anche il suo corrispondente di Jesolo, si è ben guardato anche solo dall’esprimere una nota di condanna di quanto è accaduto o di preoccupazione per le condizioni della vittima.

«Il momento delicato richiede attenzione anche nelle considerazioni che si possono fare. Dichiarazioni mi riserverò di farle solo dopo aver incontrato i capigruppo del Consiglio comunale con i quali mi confronterò per individuare una presa di posizione congiunta» ha spiegato il primo cittadino di Jesolo, Valerio Zoggia, riservandosi di verificare se l’episodio è imputabile ad una

«cattiva movida», per dirla con le sue parole, o ad una questione razziale. La cittadina veneta è governata da una maggioranza composta da Forza Italia, Civiche e Pd.

Ma il vero immondezzaio di odio e vigliaccheria è emerso nei social.«Hanno fatto bene» si legge in fondo alle pagine web dei quotidiani locali che hanno abilitato i commenti dei lettori. Spero che il tunisino non muoia solo perché poi son capaci di dare l’ergastolo ai tre giovani». Il peggio lo si trova su Fb. E non serve sporcarsi la vista sulle pagine dichiaratamente razziste o xenofobe. Basta frequentare il gruppo «Sei di Jesolo se...». «Hanno fatto bene dovevano darne di più...», «Così avrà capito che siamo in Veneto e non in Africa», «Rispetta il Paese che ti ospita ti da mangiare da dormire e soldi. Qua sei in Veneto e i veneti si fanno rispettare», «Giusto nonché necessario trattamento», «Era ora! Riprendiamoci il territorio! Andate a Firenze Roma Napoli dove vi amano» si legge pari pari, aggiustando solo i tanti errori di ortografia.

Porto Marghera, svastiche e minacce contro Bettin

Venezia. Ritrovate in Municipio due copie del suo romanzo "Cracking" carbonizzate, su una erano ancora visibili svastiche e scritte intimidatorie
«Se i nazi avessero bruciato La strage degli innocenti (Feltrinelli 2019), che ho scritto con Maurizio Dianese e documenta il ruolo di Ordine Nuovo di Venezia e Mestre in piazza Fontana, l’avrei capito meglio» confida Gianfranco Bettin, storico collaboratore de il manifesto, saggista e scrittore. Invece, in due tempi, il 25 maggio e poi pochi giorni fa, l’11 giugno, sono state ritrovate due copie bruciate del suo romanzo Cracking (Mondadori), la prima delle quali, nelle pagine superstiti, piena di svastiche e scritte di minaccia (della seconda, sequestrata dalla Polizia scientifica, si sa solo che è stata bruciata), fatte ritrovare nel municipio di Marghera, di cui Bettin è presidente dal 2015. Le indagini sono in corso e certo esplorano gli ambienti neofascisti, non nuovi in questi tempi a tracciare svastiche in giro (contro sedi di sinistra e di cooperative sociali) o ad aggressioni, come quella dell’ultimo dell’anno in piazza San Marco ai danni dell’ex deputato Arturo Scotto (Art1) reo di contestare un gruppo inneggiante al Duce.
Vi sono, però, altre piste, alle quali si riferisce lo stesso Bettin. Cracking, spiega, è un romanzo, una storia d’amore e d’amicizia, ma anche di lotta, che si svolge sullo sfondo della crisi industriale e ambientale di questi anni a Porto Marghera e a Venezia, ma che descrive per filo e per segno le grandi truffe che hanno lucrato sulle bonifiche, gli affari sporchi legati al ciclo dei rifiuti industriali e al loro traffico, infiltrazioni mafiose e forza criminale delle organizzazioni locali (dal traffico di droga al business turistico). Su tutto ciò da anni Bettin interviene duramente anche come amministratore e attivista politico. Il libro ha avuto un forte impatto in città al momento dell’uscita, qualche mese fa, sia nel dibattito sulla vicenda industriale e ambientale e sul destino dei lavoratori che la crisi aggredisce sia sul tema delle presenze criminali.
«Per quanto abbia avuto presenti alcuni importanti modelli letterari (Volponi, Sereni, Ottieri, Pagliarani, Balestrini in primis) Cracking è un libro poco letterario spiega l’autore -, scritto in modo diretto, che dice le sue cose senza troppe mediazioni: forse, senza escludere il mitomane di turno, questo ha colpito qualcuno, anche se l’oltraggio al libro potrebbe forse essere solo un oltraggio contro di me. Dico solo perché un oltraggio a un libro è qualcosa di più complesso di quello che potrebbe essere stato rivolto a me come attivista o amministratore. Resta inquietante, certo, disgustoso».
Nella vasta solidarietà manifestata finora a Bettin, brilla ora la bella notizia dell’apertura di una nuova libreria proprio a Marghera e proprio in piazza del Municipio, che nella vetrina in allestimento ha piazzato una copia di Cracking in bella vista insieme a un cartello di resistenza contro ogni intimidazione, contro ogni gesto fascista perché, comunque, questo gesto, bruciare (e due volte) un libro, lo è.

«Basta inchini», l’altra Venezia si riprende la Laguna

Una lunga catena umana contro il ritorno delle Grandi navi e il turismo di massa

Eccola qua, la vera ripartenza. Srotolata sui lunghi striscioni che ieri pomeriggio hanno sventolato lungo la fondamenta delle Zattere, davanti al canale della Giudecca. Il canale dove, prima dello scoppio delle pandemia, transitavano le Grandi Navi prima di fare «l’inchino» a piazza San Marco per regalare qualche brivido ai turisti che salutavano dai ponti di bordo. «Venezia si salva solo se tutte e tutti combattiamo contro la speculazione per costruire un nuovo modello di città» si leggeva a grandi lettere nel primo striscione, lungo più di trecento metri, che partiva dalla stazione marittima per arrivare sino al ponte Longo.

Ma la catena umana di quasi due chilometri alla quale hanno dato vita oltre tremila partecipanti, continuava anche dopo, sino alla Punta della Dogana con altri striscioni che ricordavano tutte le lotte per l’ambiente e per i diritti che si stanno combattendo a Venezia e nella sua terraferma. Sotto la chiesa barocca dei Gesuati, in mezzo alla catena, campeggiava lo striscione a lettere rosse «Venezia Fu Turistica» che ha dato il nome alla mobilitazione. Un gioco di parole per lanciare l’utopia di una Venezia Futura che è riuscita a superare la monocoltura turistica.

L’INSOSTENIBILE turistificazione della città lagunare infatti è stato il primo filo conduttore della manifestazione. Un tema sentito soprattutto dalle giovani coppie veneziane e dagli studenti di Ca’ Foscari costretti a fare i conti con un mercato immobiliare drogato dalla massiccia presenza di B&B e di alberghi. Un tema sottolineato da Marco Baravalle, portavoce del comitato Noi Grandi Navi che col sui intervento ha aperto la manifestazione. «Con questi grandi striscioni vogliamo riprenderci quella visibilità che nei giorni della pandemia è rimasta concentrata attorno a personaggi come il sindaco Luigi Brugraro. Uno che all’inizio nemmeno ci credeva al Covid e che ha fatto partire il Carnevale nonostante fossero evidenti i rischi. In questi giorni, il nostro sindaco ha avuto tutti i microfoni mediatici a sua disposizione per spiegare come intende la ripartenza: grandi feste per richiamare i turisti, ancora più alberghi, ancora più B&B, navi sempre più grandi e sempre meno residenti. Mestre e Marghera trasformati in dormitorio per i turisti più poveri che non si possono permettere di pernottare a Venezia. Ma non è questo il futuro che vogliamo per la città e per noi».

UNA NOTA POSITIVA, per una città in cui il problema dell’invecchiamento della popolazione è ogni anno più pesante, è stata la grande partecipazione di studenti medi e universitari alla manifestazione. Tra gli organizzatori infatti FfF compare a fianco dei Non Navi e degli spazi sociali della città. Ragazze e ragazze che studiano a Ca’ Foscari o allo Iuav e che vorrebbero fermarsi a Venezia se solo si creassero le condizioni per abitare e lavorare. «Crediamo che l’università, come spazio del sapere, sia fondamentale per una ripartenza che vada nella direzione giusta mi spiega la giovane Elia Lacchin del collettivo universitario Lisc -. Studenti, ricercatori, i precari e le precarie della cultura possono e devono essere centrali nella spinta verso un cambiamento radicale». Il tema della cultura si interseca, tra uno striscione e l’altro, con quello delle lotte ambientali che stanno attraversando la città e l’intera Regione.

L’avvelenamento da Pfas che ha infettato pesantemente le falde di mezzo Veneto, l’inquinamento industriale di Porto Marghera con le bonifiche sempre promesse e mai partite, e ora anche lo spettro del nuovo inceneritore che la Regione con l’avallo del Comune ha intenzione di realizzare a Fusina, proprio a ridosso della gronda lagunare. «Un’area già a forte rischio, come abbiamo visto qualche settimana fa con l’incendio alla 3V Sigma ha spiegato Roberto Trevisan, portavoce dell’assemblea contro il pericolo chimico di Marghera -. Un progetto inquinante che trasformerà Marghera nella pattumiera del Veneto ma soprattutto un progetto che va in direzione contrastante a quella di un ciclo virtuoso dei rifiuti. Un progetto sbagliato come principio. La pandemia, le ricerche mediche che spiegano come l’inquinamento atmosferico sia un veicolo privilegiato di trasmissione del virus, gli stessi cambiamenti climatici non hanno insegnato niente ai nostri amministratori».

LA CATENA UMANA SI È SNODATA lentamente e pacificamente per tutta la serata, accompagnata dall’acqua dal corteo di una ventina di imbarcazioni a remi e dalla musica degli altoparlanti che trasmettevano canzoni. «Oggi le Grandi navi non transitano ha concluso Baravalle ma questa non è una vittoria. Regione e Comune stanno valutando di realizzare un terminal a Marghera. Il che significa che le navi continuerebbero a devastare e inquinare la laguna. Un esempio perfetto di una ripartenza volta a far tornare tutto come prima e peggio di prima».

Venezia «Fu-Turistica» in piazza contro i «grandi hotel del mare»

Manifestazione oggi in Laguna. Il comitato No Navi rivendica un futuro diverso per la Città dei Dogi
Uno striscione lungo due chilometri. Il più grande mai sollevato sotto il cielo della laguna di Venezia. A sorreggerlo sarà una catena umana che partirà dal terminal crociere di San Basilio per arrivare alla Punta della Dogana, snodandosi lungo l’intera fondamenta delle Zattere, la più grande della città. Non a caso, si tratta della riva che costeggia il canale della Giudecca. Il canale che sbocca davanti piazza San Marco dove solo la Pandemia è riuscita, per ora, a fermare l’inquinante via vai delle Grandi Navi. Una battaglia, questa contro i «Grand Hotel del Mare», che per gli ambientalisti veneziani del comitato No Navi, tra gli organizzatori della manifestazione, è emblematica per ridare futuro e dignità a questa che un tempo era la Città dei Dogi.

Un enorme e ininterrotto striscione preparato dalle attiviste e dagli attivisti degli spazi sociali veneziani come il Laboratorio Morion e Il Sale Dock, che vuole testimoniare tutta la grande voglia di ripartire dei veneziani. Ma «ripartire» imboccando una direzione ostinatamente contraria a quella seguita sino a ieri.
Il nome dell’iniziativa che si svolgerà questo pomeriggio, a partire dalle ore 17 alle Zattere, è già un programma: «Venezia Fu-Turistica». E’ una speranza di Venezia futura infatti, quella che prenderà voce dallo striscione che sventolerà sul canale della Giudecca. «Venezia può rinascere solo se si libererà da questo corto circuito di speculazione che l’ha trasformata in una città museo, se non addirittura in un parco divertimenti per ricchi turisti» spiega Marta Sottoriva, studentessa di Ca’ Foscari e una delle organizzatrici della mobilitazione. «La pandemia ci ha riconsegnato una città deserta, in piena crisi perché l’unica economia che conosceva era quella del turismo. Ma Venezia è molto di più: ci sono giovani che qui sono nati o che qui hanno studiato e che qui vogliono rimanere per costruire il loro futuro che è il futuro stesso della città. Ma questo futuro sarà possibile solo uscendo dalla monocoltura turistica, con interventi a favore della residenziali capaci di fermare gli speculatori che hanno trasformato le nostre case in alberghi e B&B».
Una novità della mobilitazione di questo pomeriggio è la sua forte componente giovanile e studentesca. Molte delle ragazze e dei ragazzi che hanno realizzato l’impegnativo striscione provengono dalle file di Fridays For Future che, per l’appunto, figura tra gli organizzatori dell’iniziativa. «Venezia sopravvive solo se sopravvive la laguna in cui è immersa aggiunge Marta Sottoriva -. La tutela dell’ambiente è fondamentale per una città come la nostra che vive dell’equilibrio tra terra e acqua. I cambiamenti climatici rischiano di farci affondare. Il Mose, lo abbiamo visto anche con l’acqua alta di una settima fa, eccezionale e assolutamente fuori stagione, non è la soluzione ma il problema. La strada da percorrere è un’altra, quella della difesa del territorio da mercificazioni e inquinamenti. Venezia deve diventare la capitale della Giustizia Climatica».
«La pandemia dovrebbe averci insegnato qualcosa spiega Mattia Donadel, portavoce del comitato Opzione Zero ed invece, proprio in piena emergenza la Regione e il Comune hanno approfittato per accelerare l’iter di approvazione di un nuovo mega impianto di incenerimento da realizzare a Fusina, proprio a ridosso della gronda lagunare. Alle Zattere diremo No anche a questo progetto. La ripartenza che vogliamo è ben diversa dal rifare gli stessi errori del passato che sono stati la causa e non la soluzione del problema».

Marghera, bruciato il libro che denuncia le ecomafie

Fatti e misfatti . "Cracking" di Gianfranco Bettin è stato incendiato e lanciato dentro i locali del municipio di Marghera, di cui l'autore è presidente. Sulle pagine bruciate svastiche e scritte che invocano "ordine"
Un libro imbrattato di insulti e di svastiche. Un libro dato alle fiamme e poi gettato dentro una finestra nel tentativo di intimidire chi lo ha scritto. Il libro in questione è “Cracking” (Mondadori) e il suo autore è Gianfranco Bettin. Il luogo è la sede della municipalità di Marghera, di cui lo scrittore è presidente. Il volume è stato gettato da ignoti proprio nel vano d’entrata delle scale che conducono all’ufficio di presidenza.
Non è ancora chiaro se lo scopo era quello di provocare danni o addirittura di appiccare il fuoco all’edificio, oppure se le fiamme altro non sono che una sorta di ulteriore affronto al libro che, ricordiamolo, racconta la storia romanzata di una protesta operaia sullo sfondo del petrolchimico veneziano, tra malavita organizzata, criminalità finanziaria e lotte per il lavoro e per l’ambiente.

A trovare il volume mezzo bruciato, martedì mattina, è stato il personale incaricato della pulizia che ha immediatamente informato il presidente della Municipalità e le forze dell’ordine che hanno avviato le rilevazioni e le indagini del caso. “Un gesto da non sottovalutare ha dichiarato il prefetto di Venezia, Vittorio Zappalorto nei confronti di uno studioso che che si è sempre battuto per difendere i cittadini e l’ambiente da ogni tipo di corruzione e di mafie”.
Un gesto vile che accumula nell’oltraggio Gianfranco Bettin all’intera comunità di Marghera. Le pagine risparmiate dalla fiamme, infatti, sono coperti di insulti non solo nei confronti dell’ambientalista, ma anche di tutta Marghera, descritta come luogo degradato e malavitoso, piena di drogati e assassini, oltre che fonte di inquinamento, invocando su tutta la zona il ripristino di “ordine e pulizia”.
Un programma politico, chiamiamolo così, piuttosto semplice ma che si sposa con le principali categorie di pensiero proprie dell’estrema destra. Quella delle “soluzioni finali”, per intendersi. Tra le pagine semi bruciate, infatti, campeggiano svastiche e altri simboli nazisti. Tutte le ipotesi sugli autori del gesto sono ancora aperte. Da quella fascista a quella di una semplice persona disturbata di mente, magari impaurita dal recente incendio alla 3V Sigma che ha sollevato sull’intera laguna una impressionante nube di fumo nero.
Senza dimenticare, come ha spiegato il prefetto, che tutto ciò potrebbe rivelarsi una vera e propria operazione di intimidazione, con tentativo di depistaggio verso una pista nera, da parte di quelle mafie ambientali che Gianfranco Bettin ha sempre coraggiosamente denunciato. Mafie che, proprio in questi tempi di fine lockdown,stanno cercando di cavalcare la crisi economica e la conseguente mancanza di liquidità di tante aziende per impossessarsi delle attività produttive venete.
“Non sappiamo ancora chi è stato - ha commentato lo scrittore -. Le indagini, come si dice, sono ancora in corso. Io stesso non so ancora bene come valutare questo gesto. Bruciare i libri è certamente un gesto nazista. Una azione violenta che accumula l’odio per me a quello per i libri ed a quello per l’intera comunità di Marghera, come fosse responsabile di una devastazione ambientale e, per certi versi anche sociale, che ha radici ben lontane da queste strade.
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Tra tanti dubbi, una cosa solo resta sicura: ne io né la comunità di Marghera che in questi anni ha dimostrato in mille modi di saper reagire al crimine e al degrado, ci lasceremo intimidire”.

Esplode una fabbrica chimica, disastro annunciato a Marghera

La Sigma va in fiamme. Nube tossica sul cielo di Venezia. Diversi operai feriti, due gravi. Gli allarmi ignorati sulla sicurezza


Alle 10,15 di ieri mattina, Venezia è improvvisamente tornata alla normalità. Un forte botto causato dall’esplosione di un serbatoio ha scatenato un violento incendio a Porto Marghera che ha devastato gli stabilimenti dell’industria chimica 3V Sigma, azienda specializzata nella produzione di solventi e sbiancanti per cementifici. Un’alta colonna di fumo nero e maleodorante si è alzata dal luogo del sinistro ed è rimasta visibile per tutta la mattinata sull’orizzonte della città.
La violenza dell’esplosione ha danneggiato anche alcuni appartamenti vicini alla 3V Sigma, spaccando i vetri delle finestre e danneggiando gli interni. Il bilancio delle vittime conta numerosi feriti e due operai ricoverati in gravissime condizioni per ustioni.
Proprio due di quegli operai che il 10 luglio di un anno fa erano scesi in sciopero contro la mancata osservanza dei protocolli di sicurezza da parte dell’azienda, comprese le norme antincendio, e che qualche giorno fa, costretti a lavorare anche in pieno lockdown, avevano denunciato ancora una volta i rischi che correvano nella loro attività, ricevendo come risposta da parte dell’azienda solo la minaccia verbale di una denuncia per diffamazione.
Un disastro annunciato, quindi, quello accaduto ieri mattina a Venezia. Un disastro dal quale i comitati ambientalisti e la stessa Municipalità presieduta dall’ambientalista Gianfranco Bettin, avevano più volte messo in guardia il Comune e la Regione. Sotto accusa anche la gestione dell’emergenza da parte dello stesso Comune e dell’ArpaV.


L’allarme in terraferma è scattato con quasi un’ora di ritardo. Nella città lagunare, addirittura, dove la nube tossica si è diretta spinta dal vento, non sono neppure mai suonate le sirene. Irraggiungibili i siti della Protezione Civile e del Comune che solo alle 11,15 ha diffuso una nota in cui «in via prudenziale» invitava tutti i residenti a portarsi in un luogo chiuso, a chiudere le finestre sigillando i bordi con dei panni umidi, senza peraltro dare informazioni sulla natura dell’incendio e sulle sostanze che ammorbavano l’aria.
La paura è corsa sui social, dove i residenti postavano filmati e foto dell’impressionante colonna di fumo, chiedendosi quale fosse la portata del pericolo.
La situazione si è normalizzata solo dopo le 14, con la sirena del cessato allarme. Nel pomeriggio, gradualmente, anche il traffico automobilistico e quello ferroviario, interrotti in tutta l’area, sono tornati alla normalità. Anche il sindaco Luigi Brugnaro ha raggiunto l’area dove era scoppiato l’incendio per ribadire in una conferenza stampa che «la macchina comunale ha funzionato» e che contava di «riaprire quanto prima le strade che sono state chiuse, non appena avremo i dati dell’ArpaV sulla qualità dell’aria, così da poter far tornare le persone al lavoro».
La sua performance davanti alle telecamere è stata interrotta da alcuni attivisti del comitato contro il Rischio Chimico di Marghera che hanno chiesto un confronto col primo cittadino. Confronto negato perché Brugnaro si è semplicemente rifiutato di rispondere alle domande dei cittadini presenti. «Di fronte ad un disastro come questo che ha messo in pericolo tutta la città, il sindaco si preoccupa solo di far riprendere il prima possibile il lavoro agli operai – ha commentato Michele Valentini, portavoce del comitato Rischio chimico -. Gli obiettivi della sua amministrazione sono tutti qua: fare alberghi per i turisti, devastare la laguna per far spazio alle grandi navi e far lavorare gli operai.
La salute dei cittadini, l’avvio di una alternativa al turismo di massa, la tutela dell’ambiente e le famose bonifiche che Marghera attende da decenni sono temi che il suo programma elettorale non contempla nemmeno».
Le bonifiche, appunto. Dopo anni di progettazione e milioni di investimenti, la messa in sicurezza dell’area industriale di Venezia è ancora una utopia. Non solo. Comune e Regione stanno spingendo per la realizzazione di un nuovo, grande polo di incenerimento a Fusina. Sarà il più grande del Veneto e tratterà anche fanghi di depuratori e percolati di discariche contaminati da Pfas.
Un progetto contrastatissimo dagli ambientalisti. E viene da chiedersi se è questa la «normalità» alla quale Venezia vuole tornare dopo i mesi del coronavirus.

Crociera da incubo, la nave Costa Victoria in cerca di un porto

Coronavirus. Paura a bordo, 1.400 persone tra passeggeri e personale sperano di attraccare al più presto
Doveva essere una spensierata crociera all’insegna della mondanità in «ambienti eleganti e confortevoli», studiati apposta per «regalarti il massimo del benessere, del comfort, del divertimento», come si legge nel sito della compagnia. Ma per i 718 passeggeri della Costa Victoria si è rivelata un incubo. Un incubo che ancora non si sa come, e dove, andrà a finire.

La grande nave era salpata da Venezia il 5 gennaio e qui avrebbe dovuto concludere il suo lungo viaggio attorno al mondo a fine marzo, dopo aver fatto scalo nei principali porti dei cinque continenti, dalle Barbados alle Antille Olandesi, dalle coste dell’Ecuador a quelle della Polinesia. L’esplosione della pandemia ha scombinato i programmi e l’elegante nave si è vista sbarrare, uno dopo l’altro, l’accesso di tutti i porti di destinazione. La crociera è finita prima del tempo ed ora la grande nave sta facendo precipitosamente ritorno alla casella di partenza, dove giungerà il 28 marzo.

I comunicati della compagnia in cui viene ripetuto che non ci sono contagiati a bordo sono smentiti dalle mail di passeggeri e lavoratori di bordo. «A Dubai, il 7 marzo, sono state fatte imbarcare anche persone che venivano da aree a rischio» si legge. «Molte persone vanno in giro tossendo pesantemente e non abbiamo nessuna certezza. La situazione è complicata e c’è paura. Non sono stati distribuiti dispositivi di protezione personali. Gli spettacoli sono stati sospesi per evitare la vicinanza, ma si continuano ad ammassare persone nei ristoranti».

A bordo ci sono solo due medici e un paio di infermieri. «Aiutateci» è l’appello che lancia uno dei 790 lavoratori di bordo. «È assurdo far sbarcare 1.400 persone in un’area pesantemente colpita dal virus: se risultassimo contagiati andremmo ad aggravare una situazione sanitaria già compromessa dall’attuale emergenza. Noi non vogliamo mettere in pericolo nessuno. Solo tornare a casa». I passeggeri vorrebbero sbarcare in un porto del sud, Bari o Napoli. Ma la nave che mercoledì è entrata nel canale di Suez, sta facendo rotta verso l’alto Adriatico. Due le ipotesi sulla destinazione finale: Trieste o Venezia. Nessuna certezza viene dalla compagnia di crociere che, dopo qualche giorno di sospensione dell’attività, ha già annunciato che la stagione turistica riprenderà regolarmente e ha già messo in vendita sul suo sito biglietti per partenze dal 1 aprile.

Chi non ha nessuna voglia di ripartire ma vorrebbe solo sbarcare, sono i passeggeri della Victoria, molti dei quali sono australiani e sono convinti, come assicurano anche i mass media del loro Paese, che la destinazione finale della nave sia rimasta quella, già prevista, di Venezia: uno dei focolai della pandemia. Costa Crociere non conferma ma nemmeno smentisce. Lo stesso presidente della Regione Veneto si è dichiarato contrario all’attracco della nave alla marittima di Venezia. «Non siamo dei lazzaroni – ha dichiarato Luca Zaia – ma non sappiamo quanti siano i contagiati a bordo che hanno bisogno di cure e non siamo nelle condizioni di poter garantire nulla perché siamo in emergenza».

«Ho scoperto con delusione che Benetton non è il progressista che viene raccontato»

Se ne è andato sbattendo la porta, il filosofo Massimo Venturi Ferriolo, uno dei massimi pensatori moderni sul tema del paesaggio, già professore ordinario di Filosofia Morale ed Estetica in tante università italiane. I suoi ex colleghi della Fondazione Benetton, racconta, «si sono molto arrabbiati con me e mi ritengono impazzito» ma lui non rimpiange la sue scelta e ora lavora per far conoscere al mondo la storia del popolo mapuche. Una storia esemplare di tante che hanno afflitto i popoli originari del Sudamerica, «veri difensori della natura senza i falsi miti sullo sviluppo sostenibile neoliberista», spiega. «Distruggendoli, come sta avvenendo anche in Amazzonia, non facciamo altro che annientare noi stessi con il pianeta in cui viviamo».

Nel 1994 lei ha iniziato una collaborazione con la Fondazione Benetton, facendo anche parte, dal 2008, della giuria del premio Carlo Scarpa. Cosa l’ha spinta a chiudere questa collaborazione?
Aver scoperto con grande delusione che Benetton non è l’imprenditore progressista dell’immagine antirazzista costruita nel nostro paese e pubblicizzata da parte della stampa nazionale con cospicue pubblicità. Non potevo più collegare per le ragioni etiche, esposte nella mia lettera di dimissioni, il mio nome all’azienda, sia pur nell’autonomia della Fondazione.

In una lettera a Luciano Benetton lei scrive «Un luogo non è una merce, ha la sua storia e, anche se acquistato col denaro, appartiene a chi lo abita nel tempo e nello spazio e non può essere sottratto con il suo commercio agli abitanti secolari, come è avvenuto». Ha mai avuto una risposta?
Sì, ho avuto una risposta tramite la compagna e a.d. di Fabrica Laura Pollini che in un incontro cordiale, seguito poi da un carteggio, ha difeso l’operato dell’azienda ed ha tentato di farmi desistere dalle dimissioni. Ma la questione è culturale ed etica: non rendersi conto di aver acquistato una terra che apparteneva a un popolo ancora vivo, al quale era stata tolta in precedenza con la violenza: una storia conosciuta che da noi passa sotto silenzio anche se ora ci sono spiragli di conoscenza grazie al lavoro di voi giornalisti indipendenti.

La Fondazione si propone come l’anima candida della Benetton, ma è eticamente sostenibile distinguere i due aspetti di una stessa azienda?
No, non è eticamente sostenibile e per questo mi sono dimesso. Monti miei ex colleghi nascondono la testa come gli struzzi e non vogliono guardare oltre il proprio naso. Ma la Fondazione ha un passato e un nome prestigiosi che da lustro a tutti i membri del comitato scientifico. Alcuni non sarebbero conosciuti se non come tali.

In Italia sono pochissime le persone informate sulla questione mapuche. E’ una questione legata al poco spazio che i nostri media notoriamente concedono alle questioni internazionali oppure c’è una politica di invisibilizzazione del problema costruita anche con la complicità della Fondazione?
Se ne parla poco e sulla questione c’è un assordante silenzio. La famiglia Benetton è molto potente in Italia ed inattaccabile. Con le autostrade ha incominciato a sgretolarsi. La Patagonia rimane lontana e, in un certo senso, blindata. Ha avuto l’appoggio del governo Macrì nella battaglia contro i mapuche che solo ora cominciano a trovare giudici onesti ed a vincere qualche causa. Pian piano il caso esce dal suo silenzio. Non posso parlare tout court di complicità della Fondazione per l’invisibilizzazione del problema perché la maggior parte dei membri e dei frequentatori non lo conoscono, non sono informati o non informano. Luciano Benetton è risentito con me perché farei apparire il comitato scientifico come connivente di uno sfruttatore di indigeni. Quindi può immaginare come in realtà tenga al buon nome della Fondazione che eviterebbe d’indagare a fondo i loro affari proprio con il proprio operato.

I mapuche denunciano l’impossibilità di avere anche un semplice confronto con l’azienda. Alcune comunità troverebbero grande giovamento anche da piccole azioni come l’apertura invernale di un cancello per far passare il bestiame. Non crede che Benetton abbia sposato per principio la linea dura e consideri tutti i mapuche come un fastidio di cui liberarsi il prima possibile?
È proprio questo il problema. Imputo a Benetton di non aver fatto passi sostanziali verso i mapuche, forse per non riconoscerli come popolo. L’ho invitato più volte a sedersi a un tavolo con i mapuche con la mediazione dei colleghi antropologi e indigenisti dell’Uba, Università di Buenos Aires, uno spazio neutro scientifico per un incontro comune, per trovare una soluzione che non sia la repressione, cioè riconoscerli come entità umana e giuridica. Una popolazione storicamente sfrattata non è un fastidio. Parliamo di una popolazione che ha una cultura e una cosmologia straordinaria. Su di loro sono stati scritti libri. Sono i Benetton a non avere alle spalle una cultura solida!

L’articolo 17 della Costituzione argentina è dedicato alla salvaguardare dei popoli originari. Le sembra che siano stati fatti passi avanti in questo senso?

No. La cosa importante in questa questione infatti, è battersi per il riconoscimento giuridico del popolo mapuche dando loro una riconoscibilità chiara e definita come popolo. Per questo dobbiamo batterci in Italia, nel mondo e in Argentina per affermare e realizzare questo principio costituzionale che permetterebbe ai mapuche di tornare al possesso comunitario delle loro terre per vivere come popolo e aiutarci a difendere l’ambiente perché, ricordiamoci, solo l’interculturalità potrà salvarci frenando il rovinoso neoliberismo. Luciano Benetton non avrebbe più scuse. Se volesse davvero restituire territori, potrebbe interessarsi alla causa del riconoscimento giuridico di queste comunità e sedersi a un tavolo comune della pace e restituzione che sarebbe un evento mondiale di grande risonanza e un nobile precedente straordinario in cui spero ancora. Credo che questo per lui possa valere di più di altri profitti fini e se stessi: un nome da consegnare alla pace e non alla violenza.

Il muro colorato dai sogni del Venezia Mestre

Il murale del Bae, sulla strada per Venezia, sarà abbattuto e ricostruito. I mattoni dell’opera, dedicata al «papà» degli ultrà del Mestre, venduti per finanziare la resistenza in Rojava 

È lungo cento metri. I disegni e i colori forti e vivaci richiamano il folklore e le tonalità tipiche degli indigeni del centro America: il rosso del tramonto ed il verde della selva. I colori del calcio Venezia. Le grandi lettere che compongono la scritta «Bae per sempre» sono completate da due frasi scritte più in piccolo: «I sogni attraversano gli oceani» e «Dalla laguna alla selva Lacandona».

È LUNGO CENTO METRI, il murale del Bae, e se ne sta su quel muro che costeggia via Libertà da quasi vent’anni. Da quando, dopo la morte di Francesco Romor, avvenuta nel febbraio del 2001, a soli quarant’anni, i suoi amici dello stadio e del centro sociale Rivolta gli hanno dedicato l’opera.
Chi arriva in auto a Venezia non può fare a meno di passarci accanto e, se non è del posto, di domandarsi cosa abbia in comune la città dei Dogi con la selva messicana. Via della Libertà è l’unica strada di accesso al lungo ponte che collega Venezia alla terraferma. Impossibile non notarlo e non rimanere colpiti da quella lunga esplosione di colori sempre vivaci. Ogni anno, il giorno del compleanno del Bae, i suoi amici rimettono mano ai pennelli ed alle vernici per riportare il murale al suo originario splendore coprendo il grigiore dei fumi di porto Marghera che, da queste parti della laguna, sono perennemente in agguato.
REALIZZATO A RIDOSSO del ponte della Libertà, il murale del Bae è esso stesso un ponte verso la libertà. Quell’esplosione di colori che lo compongono non sono solo un benvenuto a tutti coloro che arrivano a Venezia ma anche una esortazione a continuare a sognare perché è «con i sogni che si attraversano gli oceani». Quegli oceani che il Bae non ha potuto attraversare perché è scomparso proprio mentre stava per partire per il Messico per partecipare alla marcia della dignità indigena, o del Colore della Terra, come l’aveva pittorescamente chiamata il subcomandante insorgente Marcos. Quell’anno, dai centri sociali del nord est, partì per il Chiapas un centinaio di ragazze e di ragazzi riuniti nell’associazione Ya Basta. Tutti col Bae nel cuore.
CALCIO E LIBERTÀ.

Francesco Romor, il Bae

La storia del Bae. «Lui sapeva tenere insieme tutto e tutti – ricorda l’amico Franz Peverieri -. Era il papà degli ultras delle curva del Venezia Mestre. Piena di ragazzi che vedevano nel calcio un qualcosa capace di regalare sogni. Abbracciavamo i colori delle nostre squadre sapendo che nulla avevano a che fare col colore della pelle. Alla base del nostro tifo c’erano valori e passioni scevre da fascismi, razzismi e xenofobia». Una strada che ha portato il Bae ed i suoi ragazzi dagli spalti del Penzo, lo stadio del Venezia, ai centri sociali del nord est. Dentro il Rivolta di Marghera, gli ultras ritagliarono un loro spazio di militanza quotidiana creando la famosa Osteria allo Sbirro Morto, di cui il Bae era il rinomato cuoco. «Sino agli ultimi istanti di vita, il Bae ha continuato il suo impegno che univa passione per il calcio e sete di giustizia. Quando è scomparso, abbiamo piantato un albero nel giardino del Rivolta e poi, quando siamo andati in Messico, lo abbiamo portato con noi, e lo abbiamo ripiantato dove lui avrebbe voluto andare: a Guadalupe Tepeyaca, nel cuore della Selva Lacandona. Un villaggio che gli zapatisti hanno restituito ai suoi abitanti, liberandolo da sette anni di occupazione militare da parte dell’esercito federale».
IN COLLABORAZIONE con Ya Basta, gli amici di Francesco realizzano il progetto chiamato «Lo stadio del Bae» di supporto alle comunità indigene della rebeldia zapatista. L’idea iniziale era di costruire uno stadio a lui dedicato, ma, in accordo con la Junta de Buen Gobierno, hanno realizzato molto di più: un acquedotto a Guadalupe Tapeyac, l’erbolario di medicina tradizionale al caracol de la Realidad, campi da basket, falegnamerie e officine e altri progetti come Agua para todos e la commercializzazione del caffè zapatista. Grazie al sostegno di tante associazioni legate al «futbol rebelde» italiane e anche europee, come gli ultras tedeschi del Sankt Pauli, lo Stadio del Bae riesce a raccogliere quasi 100 mila euro che negli anni successivi saranno devoluti alle comunità ribelli indigene. Tutti progetti che, con altre formule e con altri finanziamenti, ancora sono portati avanti dalle associazioni Ya Basta di tutta l’Italia.
LE RUSPE NON CANCELLANO i sogni.
Sogni che non finiscono mai, quelli rappresentati dal murale del Bae. Sogni che attraversano gli oceani ma che rischiano di crollare sotto le ruspe che dovranno aprire la strada al nuovo piano di viabilità varato dal Comune di Venezia. Già. Il murale del Bae dovrà essere abbattuto per fare spazio ad una nuova strada. I cantieri sono già stati aperti e, tra non molto, Venezia dovrò dire addio allo storico muro. Non sarà però un addio al murale.
Il valore sociale ed artistico di questo che è uno dei primi esempi di street art mestrina è stato riconosciuto anche da una amministrazione comunale come quella di Venezia che certamente non è molto sensibile alle battaglie che stavano a cuore a persone come Francesco Romor. L’assessore alla Viabilità, Renato Boraso, ha garantito che sarà concesso uno spazio uguale nel nuovo muro che fiancheggerà la strada. Un gruppo di consiglieri bipartisan ha aperto un confronto con Ya Basta e le associazioni dei tifosi del Venezia per trovare una soluzione comune. Anche il presidente della municipalità di Marghera, Gianfranco Bettin, ha invitato il Comune ad aprirsi al confronto con la famiglia e gli amici di Romor.
RESTA PERÒ UN MURALE da abbattere. Un murale su cui sono stati riversati, assieme ai colori, anche tanti sogni. «Abbatteremo il muro ma salveremo il murale, rilanciando le battaglie in cui Francesco credeva – conclude Franz -. E lo faremo usando la nostra creatività. L’idea su cui stiamo lavorando è quella di smontare l’opera e vendere i singoli mattoni. Il ricavato lo destineremo ad altri progetti di resistenza e di solidarietà». Quali? «Se il Bae fosse ancora con noi, il suo cuore oggi sarebbe nel Rojava, assieme ai curdi che combattono contro l’aggressione turca. Con gli amici di Ya Basta stiamo valutando come realizzare questo progetto. Il nostro amico, ne siamo sicuri, sarebbe contento».

Unite o separate? Venezia e Mestre ci riprovano per la quinta volta

E con questo sono cinque. Per la quinta volta, i residenti di Venezia sono chiamati ad esprimersi sulla divisione dell’attuale Comune in due amministrazioni autonome, una per Venezia e una per Mestre. Si tratta di un referendum solo consultivo ma legittimato dal Consiglio di Stato e, pur se con qualche resistenza, anche dalla Regione Veneto che ha stanziato gli 800 mila euro necessari allo svolgimento della consultazione. Se vincerà il Sì, la città d’acqua e la Terraferma si separeranno, ognuna con un suo sindaco e una sua amministrazione, proprio come chiede la legge di iniziativa popolare numero 8 che sta alla base del referendum. Se vincerà il No, o l’astensione, tutto rimarrà come adesso.
Siamo al quinto referendum sullo stesso tema, scrivevamo in apertura. La tenacia dei separatisti, tra le calli di Venezia e le strade di Mestre, è diventata ormai proverbiale. L’ultima chiamata alle urne, nel 2003, è stata annullata per il non raggiungimento del quorum, appena il 39 per cento. Avrebbero comunque vinto gli unionisti con il 66 per cento dei voti. Le precedenti consultazioni, avvenute nel 1979 (affluenza 80%), nel 1989 (74%) e nel 1994 (68%), hanno ugualmente visto trionfare i No ma con percentuali sempre decrescenti. In ordine: 72%, 58% e 56%.

Gli ultimi sondaggi che sono girati sul web, vedono trionfare il club dell’astensione e degli indecisi ma con una leggera percentuale di Sì tra coloro che hanno manifestato l’intenzione di andare votare. Sono comunque tutte statistiche raccolte prima dei giorni dell’Acqua Granda. Tutto da vedere se e come la drammatica settimana del 12 novembre influirà sul referendum e sull’affluenza. Di sicuro, il tema della separazione non è stato al centro del dibattito politico degli ultimi giorni, tutto centrato su “Mose sì, Mose no” e sui progetti di difesa della città dall’assalto, che minaccia di essere sempre più frequente, delle maree e dei cambiamenti climatici.

Per i separatisti, il primo scoglio da superare sarà quello del quorum. Sotto accusa, il sindaco Luigi Brugnaro che ha espressamente invitato all’astensione e che ha fatto tutto quello che poteva fare, e anche qualcosa di più, per silenziare un referendum che lo priverebbe quantomeno di metà Comune. In caso di vittoria del Sì, il sindaco di Venezia sarebbe obbligato infatti a levare le tende ed a scegliere dove presentare una sua ipotetica candidatura futura. Il suo invito a disertare le urne ha suscitato le ire della senatrice Cinque Stelle Orietta Vanin che ha denunciato tutta una serie di censure operate dall’amministrazione. Ed in effetti, anche a voler prescindere dal fatto che per pescare un tabellone per le affissioni devi girare tutta la città e quando lo trovi è un formato ridotto, ai separatisti sono stati negati, e senza neppure la briga di una giustificazione, anche gli spazi pubblicitari a pagamento dell’azienda municipale dei trasporti. Ancora più grave la rimozione forzata da parte dei vigili urbani degli striscioni separatisti che alcuni privati cittadini avevano appeso alle loro finestre. Tutte operazioni che la Vanin ha giudicato come un attacco ai diritti politici e civili dei cittadini.

Dei 5 Stelle va detto che da un iniziale “votate secondo coscienza” si sono convertiti al separatismo dopo l’entrata a gamba tesa di Grillo che nel Blog delle Stelle ha invitato a votare Sì perché “altrimenti tutto rimane uguale”.

Ancora più acrobatica la posizione della Lega, convinta separatista nei referendum precedenti, oggi astensionista ed allineata alle posizioni del sindaco che sostiene in maggioranza.

Andare a votare per rispetto dell’istituzione referendaria ma votare No è la posizione del Pd, dei Verdi e, in generale, della sinistra, pur con qualche voce discordante. Una su tutti, quella dell’ex candidato sindaco Felice Casson che propende per il Sì. Per il No anche Confindustria, Cna e Cgil. ”Se fosse un referendum per l’autogoverno di Venezia voterei subito Sìto - ha spiegato Tommaso Cacciari - Ma questa consultazione punta solo ad indebolire tanto Mestre quanto la città lagunare che diverrebbe marginale e non avrebbe più voce in capitolo né sui cieli, né sulle acque perché Porto e Aeroporto resterebbero al di fuori della sua competenza”.

«Non chiamatelo maltempo». A Venezia, il Friday for future con gli stivali

La crisi climatica è qui ed ora. Le ragazze ed i ragazzi di Fridays for Future lo scrivono nello striscione che apre il corteo di Venezia. Portano tutti gli stivali ai piedi perché, nell’ex laguna dei Dogi, l’emergenza non è ancora finita. Dal codice rosso di «alta marea eccezionale», le acqua alte sono passate al codice arancio di «sostenuta». Che significa comunque un buon 30% della città a mollo. E vista con gli occhi di chi ha l’acqua alle caviglie, la crisi climatica acquista tutto un altro carattere di emergenzialità. Per tutti, tranne che per l’amministrazione comunale di Venezia e della sua maggioranza negazionista che continua a rifiutarsi di votare una mozione di emergenza climatica, come chiedono i FfF, nonostante nei giorni della acqua granda, nell’atrio di Ca’ Farsetti ci si potesse navigare in gondola.
Proprio per questo suo immobilismo, il Comune è stato il primo bersaglio dei manifestanti che lo hanno simbolicamente chiuso col nastro rosso delle emergenze. «Venezia è il perfetto paradigma della crisi ambientale che stiamo attraversando – ha spiegato Sofia Demasi di FfF -. Una città sorta su un meraviglioso equilibrio tra terra e mare che è stato progressivamente devastato da grandi opere come il Mose. Decretare la morte della laguna, sbarrandone gli accessi al mare per sei mesi all’anno, come farebbe il Mose se riusciranno un giorno a farlo entrare in funzione, non può essere una soluzione accettabile. Non possiamo pensare di sopravvivere noi, mentre crolla l’intero ecosistema. È l’intero pianeta che deve sopravvivere. Ma su questo obiettivo, i nostri politici sono assolutamente inadeguati».

Buoni solo a fare passerelle in piazza San Marco, spiegano dai loro megafoni i FfF, mentre la città è invasa da una acqua granda che non si vedeva da mezzo secolo. Ma «non chiamatelo maltempo», afferma l’hastag scelto dai manifestanti per i social. Non è l’acqua che ha devastato Venezia ma le conseguenze di uno sviluppo devastante che ha mercificato la laguna, asservendola agli interessi delle Grandi Navi e del porto industriale, scavando grandi vie d’acqua incompatibili con la morfologia del fondale.

Ma se Venezia rimane comunque una città sotto i riflettori del mondo, i ragazzi di FfF non hanno dimenticato che i fenomeni meteorologici estremi, che oggi sono straordinari ma che domani saranno ordinari, hanno colpito anche aree che non godono della stessa attenzione mediatica. Cartelle e striscioni in solidarietà con la Liguria, la Toscana, il Trentino, la Sicilia e la Basilicata sono stati appesi in campo San Geremia, davanti ala sede della rai Regionale. «Ma non chiamatelo maltempo – conclude Sofia -. Siamo nel bel mezzo di una crisi climatica e ne usciremo solo cambiando il sistema».

Venezia e New York, destino comune sancito dai Fridays for Future

Appuntamento a Park Avenue. Domani in laguna nuova alta marea: quarto codice rosso negli ultimi 10 giorni

Anche a New York, i Fridays For Future si sono mobilitati per la salvaguardia di Venezia, e si sono dati appuntamento per il loro sit in del venerdì a Park Avenue, davanti al consolato italiano. «Venezia è sommersa – hanno scritto in un tweet – e sta pagando l’inazione del Governo e della Regione del Veneto di fronte ai cambiamenti climatici».

Un destino comune, quello della Città dei Dogi e della Grande Mela. Entrambe le città sono considerate tra le più a rischio per l’innalzamento del livello dei mari. Ma è anche l’ennesima dimostrazione di come Venezia sia sempre al centro dell’attenzione mondiale. «La nostra città ha una innegabile dimensione globale – ha spiegato marco Baravalle del comitato No Grandi Navi -. Non è solo un simbolo, ma anche un chiaro paradigma di un pianeta condotto alla deriva da un sistema produttivo predatorio e mercificatore. Ma proprio per le sue peculiarità, Venezia ha tutte le carte in regola per riscattarsi e dimostrare che acqua, terra ed esseri umani possono coesistere in un unico ambiente come era ai tempi della Serenissima, prima che il capitalismo anteponesse gli interessi industriale a quelli della salvaguardia della città e si cominciasse ad interrare le barene per far spazio alla zona industriale».

Ristabilire questo perduto equilibrio morfologico, piuttosto che continuare in una politica di grandi opere devastanti che non sono la soluzione ma la causa del problema, è quanto chiedono Fridays For Future e il comitato No Navi che questo pomeriggio alle ore 17, in una assemblea cittadina in sala San Leonardo, chiameranno alla mobilitazione per domenica pomeriggio.

Mobilitazione che si svolgerà proprio dopo un’altra grande marea. Domenica mattina, alle 8,45, sono previsti infatti 140 centimetri di acqua alta. Il che comporterà l’allagamento di perlomeno il 60 per cento delle calli e dei campielli. Certo, siamo lontani dal picco di 187 centimetri registrato martedì, ma rimane comunque una “alta eccezionale” col rischio che lo scirocco ci faccia un’altra volta lo scherzo di spingere un altro fronte d’acqua dentro la laguna. In ogni caso, siamo al quarto «codice rosso» nei soli ultimi 10 giorni.

«I miei concittadini sono attoniti e muti – spiega Andreina Zitelli -. Attoniti perché non avevano mai assistito ad una tale frequenza di acque alte. Muti perché hanno capito che la politica non li salverà. Governo, Regione e Comune continuano a parlare del Mose e della necessità di realizzarlo al più presto. Ma nessuno sa, se e quando sarà pronto. I test sono ancora tutti da fare e hanno già detto che in situazioni critiche come quelle di martedì, nessuno potrebbe prevedere l’effetto delle onde sulle paratoie, col rischio di cedimento e di far spazzare la città da uno tsunami. Tutta l’operazione è in mano a enti che perseguono interessi privati come il Porto. Nessuno affronta il problema vero: cosa fare per difendere sin da ora e con un progetto che guardi al futuro climatico che ci attende, la laguna dalle alte maree. L’unica soluzione è quella di alzare i fondali e riportarli come erano una volta per rimediare agli errori passati. Bisogna fare entrare meno acqua e meno velocemente».

Sospendere i finanziamenti milionari al Mose per dirottarli verso opere atte a ripristinare la morfologia lagunare e salvaguardare il costruito, è quanto chiederanno i manifestanti che domenica daranno vita ad un corteo con partenza da campo Santa Margherita alle 14. La manifestazione si farà anche in caso di acqua alta, assicurano. Perché, come cantano i No Tav per la Val di Susa, “La laguna paura non ne ha”.

In piazza dopo la mareggiata per dire no al Mose

Dopo i giorni dell’emergenza, arrivano i giorni della mobilitazione. «Non ci siamo tirati indietro quando c’è stato da rimboccarsi le maniche per aiutare le persone che avevano le case e i negozi allagati, non ci tiriamo indietro adesso che vogliamo, e dobbiamo, far sentire la voce di Venezia a quanti pretendono di decidere il suo futuro senza tener conto dei nuovi scenari climatici». Anna De Faveri, giovanissima studentessa di Fridays For Future, è una delle tante ragazze e dei tanti ragazzi che i giornali locali hanno battezzato «angeli della laguna» per l’impegno profuso tra calli e campielli dopo la mareggiata di martedì 12. Anna e altri studenti di FfF, assieme a rappresentanti del comitato ambientalista No Grandi Navi, hanno annunciato una grande manifestazione per domenica prossima e sono stati i protagonisti di una affollata conferenza stampa nel cuore di Venezia, in una Scoletta dei Cale- gheri con il pavimento ancora bagnato dell’alta marea.
«Non chiamiamola ‘acqua alta’ - ha sottolineato Tommaso Cacciari del laboratorio Morion - Quella che ha colpito Venezia è stata una cosa ben diversa dalle solite alte maree. È stata un’onda anomala causata dalla sovrapposizione di un fenomeno meteorologico estremo dovuto ai cambiamenti climatici e dalla devastazione di una laguna trasformata in merce da un modello di sviluppo sconsiderato».

È cambiato il clima, è cambiata la laguna, è cambiata la marea. Sono rimasti uguali solo i politici che continuano a invocare il Mose, l’opera costata 5 miliardi e mezzo di cui uno e mezzo speso in corruzione, come unica panacea salvifica. «Il Mose non è la soluzione ma parte del problema - spiega Armando Danella del comitato No Navi - Si è verificato proprio quello da cui gli ambientalisti avevano messo in guardia. Oggi tutte le criticità dell’opera sono evidenti. Proprio quelle criticità per le quali il Comune, gli ecologisti, la scienza avevano cercato di bloccare l’opera. Quello che non sono riusciti a fare loro, lo hanno fatto i cambiamenti climatici che implicano una frequenza sempre maggiore di fenomeni estremi che mettono in luce l’inadeguatezza del sistema di paratie mobili».

Lo striscione che aprirà il corteo di domenica chiederà, proprio in nome dell’emergenza che sta vivendo Venezia, di sospendere i finanziamenti al Mose e dirottare questo denaro su opere atte a contenere le prossime mareggiate, ristabilendo l’equilibrio idrogeologico della laguna, innalzando la pavimentazione delle isole, pulendo i canali interni alla città e abbassando la profondità delle bocche di porto e dei canali navigabili. Progetti poco costosi e di facile realizzazione. Progetti già sperimentati con successo e che possono aiutare la città ad affrontare le prossime mareggiate. 11 corteo partirà da Campo Santa Margherita alle 14. La mobilitazione sarà preceduta, sabato in sala San Leonardo, da una assemblea pubblica.

La manifestazione era stata prevista per il primo dicembre ma è stata anticipata di una settimana perché questa domenica i residenti del Comune sono chiamati alle urne per esprimerei sull’ennesimo referendum per la separazione di Venezia e Mestre. Ma c’è anche un’altro motivo per cui la manifestazione è stata anticipata al 24. Martedì 26, infatti, si riunirà il cosiddetto Gomitatone, il comitato interministeriale che ha il compito di decidere sulla salvaguardia di Venezia. Una forte mobilitazione della città due giorni prima dell’incontro potrebbe rivelarsi decisiva per le sorti di Venezia.

E mentre preparano la manifestazione, le ragazze e i ragazzi di FfF non trascurano di intervenire attivamente per aiutare i residenti alluvionati. «Alla faccia di tutti quei politici che dicono che siamo capaci solo di marinare la scuola». Ruggero Tallon si toglie il proverbiale sassolino dalla scarpa: «In questo momento stiamo lavorando per Pellestrina. Venerdì dovremmo riuscire a portare loro un prima barca carica di elettrodomestici. Nell’isola c’è gente disperata che ha davvero perso tutto. E nessuno di loro si illude che arriveranno aiuti come per Venezia».

La Serenissima conta i danni. Emergenza fuori dall’acqua

Dopo il picco alta marea di domenica la Laguna prova a rialzarsi. Ma è caos negli ospedali

La paura è oramai alle spalle. La seconda mareggiata prevista per domenica a mezzogiorno si è fermata di qualche centi- metro sotto il metro e sessanta annunciato. I veneziani l’hanno attesa con gli stivali ai piedi. I piani terra di case e negozi difesi da pompe e paratie d’acciaio, o da improvvisate tavole di compensato sigillate agli stipiti degli usci con speciali schiume impermeabili. Qualche spiritoso ci ha scritto sopra in pennarello: «E1 Mose dei poareti». Il Mose dei poveri. Ma i disastri che doveva fare, l’acqua granda li ha già fatti lunedì e la città, stavolta, se l’è cavata con la consueta montagna di disagi. L’atmosfera che si respira tra i residenti è quella di chi vuole tornare alla normalità il più presto possibile. Le librerie hanno sistemato dei tavolini pieni di libri danneggiati nei campielli con il cartello: «prendi ciò che vuoi, paga ciò che vuoi». Gli studenti sono tornati a scuola, i servizi di linea regolari, a parte alcuni approdi ancora sottosopra, uffici e negozi aperti, banchi dei supermercati pieni di merci. Solo il tradizionale «Buongiorno» di chi si incrociava tra le calle è sostituito da un solidale: «Danni?»
Solo la sanità È ancora lontana dal recuperare. I reparti ospedalieri dei piani terra sono ancora sottosopra. Gli appuntamenti sono saltati quasi dappertutto e vanno ad incastrarsi nelle già lunghe file d’attesa. Davanti agli ambulatori dei medici di base - quasi tutti al piano terra - ci sono lunghe fila di pazienti, anziani soprattutto, che chiedono impegnative, ricette e il vaccino anti influenzale. «L’acqua ha fatto saltare il computer e anche l’archivio cartaceo è stato rovinato. Gli studi li stiamo pulendo adesso - spiega la segretaria di un ambulatorio -. Mi tocca dire a tutti di tornare domani che vediamo che possiamo fare».

Sul capitolo “Danni” la situazione comincia ad essere più chiara. La soprintendente veneta, Emanuela Carpani, ha dichiarato: «Su un totale di 120 chiese, ne sono state sommerse una settantina. Solo per i primi interventi di reai pero serviranno tra i 60 e i 70 mila euro per ognuna. I danni più grandi si sono verificati nelle isole Torcello e Murano. Ma anche Chioggia e tutto il litorale è stato colpito pesantemente».

La flotta del servizio pubblico lagunare di navigazione ha perso irrimediabilmente 5 vaporetti che sono stati affondati dalla mareggiata. Poi ci sono gli approdi da ripristinare. Il direttore Giovanni Seno ha parlato di un conto tra i 15 ed i 20 milioni di euro. Già con questa voce, se ne va già il primo finanziamento stanziato dal Governo che ammontava proprio a 20 milioni di euro.

SE A VENEZIA LA VITTIMA dell'acqua granda è stato più che altro il patrimonio artistico, a Porto Santa Margherita, Eraclea, Bibione, Lignano e Caorle, lo è stato l’ambiente. La spiaggia di Caorle, in particolare, non esiste più. La sabbia è stata ingoiata dal mare.

Con il bollettino delle maree che prevede qualche giorno di stabilità, Venezia sta lentamente cercando di ritrovare una sua normalità. Tanto i cittadini quanto la politica, catalizzati sul dibattito Mose si o Mose no, preferiscono ignorare che, tra cambiamenti climatici e continui scavi in laguna, l'emergenza di questi giorni rischia di perdere il suo carattere di eccezionalità e di ripresentarsi presto.

Statistiche alla mano, negli ultimi dieci anni, la fr equenza delle alta maree f* andata via via aumentando, e il trend lascia supporre che l’acqua gratula tornerà più presto di quel chi spera. In assenza di una severa polìtica di ripristino degli antichi equilibri idrogeologici e, più in generale, di contenimento del cambiamenti climatici, Governo, Regione e Comune continuano a battere sul tasto dell'emergenza. Va tutta in questa direzione, la nomina del sindaco Luigi Bru- gnaro, caldeggiata dal presidente della Regione Luca Zaia, a commissario per l'emergenza. Dopo essersi fatto immortalare come un novello San Cristoforo intento a soccorrere, con gli stivali al piedi, un cameraman infortunato, il sindaco ha esortato i veneziani a «fotografare e documentare i danni e gli interventi» riferendosi ai famosi 5 mila euro per 1 privati e 20 mila per le imprese promessi dal Governo a titolo di rimborso. «Sotto una certa cifre basterà la firma di un perito, Sopra, ci sarà un procedura di verifica. Ma nei prossimi giorni, ci doteremo di una cabina di regia per gestire la faccenda».

SOSTEGNO ALLA CABINA di regia del sindaco, arriva anche dal Pd locale. Pesanti critiche al neo commissario arrivano invece dagli ambientalisti. «Brugnaro ha sempre sostenuto il Mose, causa prima del dissesto lagunare - ha dichiarato Marco Baravalle dei No Navi -, E' favorevole allo scavo dei canali per far passare le Grandi Navi, Per sua stessa ammissione di problemi tecnici non ne capisce niente. Insomma è la persona meno adatta per salvare Venezia dall'acqua alta».

Venezia in allerta per il picco di acqua alta

La città prova a rialzarsi dopo l’alta marea dei giorni scorsi, ma per mezzogiorno di oggi è prevista una nuova ondata di piena. Sospesi i mutui per un anno. Il comune invita i cittadini a documentare i danni subiti.


Cinque giorni dopo l’acqua granda, Venezia è ancora qua, «picada a un ciodo», appesa ad un chiodo, ma viva. Le scuole ancora chiuse e gli studenti in giro con scope e ramazze ad aiutare chi ne ha bisogno. Ad affiancarli, un nutrito numero di pensionati, già idraulici ed elettricisti, che hanno ripreso in mano i ferri del mestiere, e si sono messi a disposizione di quanti ne hanno bisogno. I negozi stanno lentamente tornado alla normalità, anche perché le maree di ieri e dell’altro ieri si sono rivelate meno pesanti del previsto. Il botto però, è atteso per oggi alle 12,30 in punto. Le previsioni del Centro Maree, che non è che ci abbia azzeccato molto in questi giorni di emergenza, parlano di 160 cm. sul livello del mare. Un numero che fa paura, e non soltanto perché significa che la città sarà sommersa per un buon 80 per cento, quanto perché era questa la marea prevista per la notte della mareggiata e che, grazie alla spinta di un «muro» di scirocco, è arrivata a ben 187 centimetri, sfiorando il record di quel terribile 4 novembre del 1966.

Chi ha qualche anno sul groppone, se lo ricorda bene quel novembre. Stefano Fiorin è un pescatore molto noto a Venezia, perché sul suo cofano va a pesca sia di branzini che di sacchetti delle immondizie. Quando ne vede uno, se lo tira in barca per consegnarlo ai punti di raccolta differenziata della Veritas, l’azienda che gestisce il ciclo dei rifiuti. La laguna è casa sua. E chi non terrebbe pulita casa sua? «Mai visto tanti sacchetti a spasso per i canali come in questi giorni – racconta -. La grande differenza tra l’acqua alta del ’66 e questa è la plastica. Cinquant’anni fa non ce n’era. Perlomeno non come ai nostri giorni. Oggi la laguna ne è invasa. Io ho raccolto quello che ho potuto ma ho dovuto portarmi tutto a casa perché la Veritas non ha ancora ripristinato la raccolta differenziata. Dicono che non ce la fanno ancora».

Va meglio per il trasporto pubblico. Fatte salve un paio di linee dirette al Lido ed una mezza dozzina di approdi ancora sottosopra per la mareggiata, il servizio è tornato in funzione. I disagi sono comunque ancora notevoli in quanto, pur con acque alte di minore intensità, come si registrano in questi giorni, battelli e vaporetti sono costretti a fermarsi perché non riescono a passare sotto i ponti.

Sul fronte romano, il Consiglio dei ministri ha approvato la richiesta di Comune e Regione ed ha dichiarato lo stato di emergenza sia per la città di Venezia che per tutte le altre aree del Veneto colpite dall’alluvione. Il governo ha ufficialmente stanziato il primo finanziamento, ammontante a 20 milioni di euro. Fondi che saranno destinati ai privati con un massimale di 5 mila euro, e alle imprese, massimo 20 mila euro, che abbiano subito danni. L’amministrazione comunale veneziana ha deciso di posticipare la scadenza della tassa sui rifiuti (Tari) e di farla slittare di un mese, dal 16 novembre al 16 dicembre, sia per le aziende che per i residenti. Il Comune ha invitato i cittadini a documentare i danni subiti ed a presentare domanda di rimborso. Anche l’Abi, l’associazione Bancaria italiana si è mobilitata ed ha invitato le banche a venire incontro a quanti sono stati danneggiati dalla marea. Bnl e Unicredit hanno sospeso il pagamento dei mutui concedendo una moratoria di un anno. Questi istituti hanno anche varato un prestito speciale di solidarietà a condizioni agevolate per sostenere la ripresa dell’economia.

Il sindaco Luigi Brugnaro parla genericamente di «un miliardo di danni». Una cifra come un’altra, perché la conta dei danni non soltanto non è ancora iniziata ma non si sa ancora quando potrà concludersi, considerato che l’emergenza è ancora in atto. Senza contare che ci sono perdite che nessuna banca potrà ripagare. Ad esempio ai danni che l’acqua salata ha causato ai delicati mosaici della basilica di San Marco ed alla sua cripta. Oppure agli spartiti vergati a mano da Antonio Vivaldi, Benedetto Marcello e altri grandi della storia delle musica che si trovavano nella biblioteca del conservatorio Benedetto Marcello e che sono stati irrimediabilmente distrutti dall’acqua salata.

Non tutto a questo mondo si misura con i «schei».

«Il Mose non serve, occorre ridurre la profondità dei canali»

Intervista ad Andreina Zitelli, docente allo Iuav. «La mareggiata ha dimostrato che la laguna non è fatta per le profondità necessarie per le Grandi navi. Occorre ripristinare l’equilibrio morfologico dell’ambiente»

E intanto che aspettiamo il Mose, che facciamo? Se lo è chiesto Andreina Zitelli, già docente di analisi e valutazione ambientale allo Iuav, nonché una delle maggior conoscitrici del Mose, considerando che faceva parte della commissione Via che ha valutato, e bocciato, il progetto. Già. Sono in pochi a ricordarselo, ma l’unica valutazione di impatto ambientale che ha ottenuto il Mose è stata negativa. C’è voluta tutta la spinta dell’allora governo Berlusconi per imporlo a Venezia, sull’onda di quella Legge Obiettivo che ha sdoganato la politica delle Grandi Opere come la Tav.
«Ci dicono che il Mose sarà completato nei prossimi due anni», spiega Zitelli. «Anche ammesso che sia vero, cosa dovremmo fare noi veneziani in questi due anni in cui, con l’avanzare dei cambiamenti climatici, gli eventi meteorologici estremi saranno sempre più frequenti? Dovremmo affidarci alla Madonna della Salute come all’epoca della grande pestilenza? Bisogna prendere atto che la città sta vivendo un momento di radicali mutamenti. Che ci piaccia o no, tutta la sua economia sarà sconvolta. Non è possibile pensare di tenere aperto un esercizio che viene invaso da maree di così grande portata. Anche se il Mose fosse entrato in funzione, nella notte di lunedì, avrebbe abbassato il livello dell’acqua di appena 20 centimetri al massimo, perché le paratoie non sono state pensate per acque alte di questa intensità. Le calli sarebbero stata ugualmente invase. Ma non possiamo rassegnarci ad abbandonare la nostra città. Soluzioni ce ne sono e vanno messe in atto. E la prima, la più urgente, è quella di alzare il livello del canale della bocca di porto per limitare il flusso della marea. Un po’ come si è fatto durante la guerra, quando per difendere la laguna sono state affondate delle navi tra le dighe. Ed infatti in quel periodo non ci sono state acqua alte».

Che ne dice di affondare una Grande Nave sopra il Mose?

(ride) No, perché una Grande Nave è alta sessanta metri e chiuderebbe completamente la laguna. Ma a parte gli scherzi, ci sono speciali strutture autoaffondanti testate in molte situazioni analoghe che costano poco e che sono di immediata installazione. Per far passare le navi, il canale è stato scavato da 7 a meno 12 metri. E’ stato un errore. Adesso è necessario ridurre la sua profondità.

Ma così le Grandi Navi non potranno entrare più in laguna

Cosa le ho appena spiegato? Volenti o non volenti, l’economia della città sarà stravolta. Se non lo faremo noi, lo farà l’aumento delle maree e dei fenomeni meteorologici estremi. Noi possiamo solo decidere come governare questi mutamenti. La mareggiata ha dimostrato che la laguna non è fatta per le profondità necessarie alle Grandi Navi. Al contrario, bisogna ripristinare l’equilibrio morfologico dell’ambiente lagunare e mettere in atto tutte quelle misure, a breve e lungo termine, atte a contenere le maree che saranno sempre più alte e più frequenti. Le soluzioni sono tante. Dall’innalzamento delle isole, come è stato fatto per Poveglia, sino alla ridistribuzione nelle barene dei fanghi della cassa di colmata A. In conclusione, la laguna deve tornare ad essere ancora più laguna. Nemmeno un granello deve essere ancora scavato.

Che ne pensa allora della nomina a commissario per l’emergenza del sindaco Luigi Brugnaro, che propone di scavare il Vittorio Emanuele per portare le Grandi navi Marghera?

Ricordiamoci chi è Brugnaro. Il personaggio che ha messo la coppa vinta dalla sua squadra di basket nel suo scranno in aula di consiglio mentre si votava per costruire il nuovo palazzetto dello sport nei suoi terreni. E’ il sindaco che ha consentito lo sviluppo incondizionato dei B&B. E’ l’uomo che ha dato l’autorizzazione alla realizzazione di un fronte di hotel low cost a Mestre, che non ha mai fatto nulla contro, anzi ha favorito, l’invasione del turismo giornaliero. E’ il sindaco che non ha mai fatto niente per contrastare il moto ondoso e che, al contrario, concede tutto alle grandi lance di trasporto dei turisti. Ritengo scandaloso che sia stato nominato commissario all’emergenza per l’acqua alta proprio la persona che vorrebbe devastare ancora la laguna per portare le Grandi Navi a Marghera, scavando altri canali e costruendo, tra l’altro, altre banchine d’ormeggio su terreni inquinati di proprietà privata.

E della neo commissaria Elisabetta Spitz che ne pensa?

Nulla da eccepire sulle sue qualità morali. Ma ricordiamoci che è stata consulente del Consorzio Venezia Nuova (Il concessionario unico del Mose, ndr) ai tempi del presidente Giovanni Mazzacurati. Non credo neppure che la Spitz abbia grandi competenze in elettromeccanica. A questo punto dei lavori, sarebbe stato preferibile un tecnico. I famosi test sulla tenuta delle paratie sono condotti sotto una omertà assoluta. Si sa solo che ci sono dei problemi e che, per ora, non funziona nulla. Ci dicono solo che l’opera è completa al 92 per cento. Ma che vuol dire se non si riuscirà a realizzare quell’8 per cento che manca?

Il soccorso degli «angeli» alla città in ginocchio

Com'è triste Venezia. «Sono a San Trovaso. Ci sono delle signore anziane che ci hanno chiesto aiuto. I negozi vicini sono chiusi. Dove posso andare a fare la spesa per loro?»

«Gli angeli della laguna», li hanno chiamati i giornali locali. Sono stati questi angeli i primi a scendere per le calli ed i campi, e a mettersi a disposizione di tutti coloro – e sono tanti in questi giorni a Venezia – che ne avessero bisogno. Sono per lo più giovani o giovanissimi. Studenti medi o universitari. Molti sono residenti. Altri vengono dalla terraferma: Mestre, Marghera o anche da città vicine come Padova e Vicenza. Sono le ragazze e i ragazzi di Fridays for Future: la migliore risposta a quel trauma collettivo che ha colpito la città lagunare che ha improvvisamente scoperto di essere fragile di fronte alla sua stessa laguna, ferita da scavi, cemento e grandi opere, abbandonata e tradita da tutti quei politici che in questi giorni drammatici la usano come palcoscenico per i loro selfie elettorali.
IN QUESTO SCONFORTANTE panorama, tra sirene che risuonano nelle calli e previsioni di marea che si accavallano una sull’altra, sotto il peso di una emergenza di cui ancora non si vede la fine, i veneziani hanno scoperto di possedere un tesoro inestimabile: una generazione di giovani che ha dimostrato sul campo una capacità straordinaria di solidarizzare e di organizzarsi. All’appello che Fridays for Future ha lanciato già nella notte della mareggiata, hanno risposto sino ad ora più di 600 giovani. Il Laboratorio Morion, storico centro sociale di Venezia, ha fatto da cuore e da punto di riferimento alla mobilitazione. Anche quando il suo pavimento è stato coperto da mezzo metro d’acqua. Le pagine Facebook, i canali Instagram e le chat sono gli strumenti con i quali i giovani si sono organizzati. In particolare, il gruppo WhatsUp «FfF Un aiuto per Venezia» è stato, ed è tutt’ora, il cardine degli interventi. «C’è qualche brava anima pia che vada a dare una mano alla galleria Ferruzzi a Dorsoduro? Ieri sono andata ad aiutare con alcuni amici ma oggi sono bloccata qui. Il proprietario è un signore gentilissimo che ha davvero bisogno di aiuto». «Chi può venga a raggiungerci alla scuola per l’infanzia Santa Dorotea, vicino al Ghetto. Bisogna tirar su tutto e recuperare i banchi».

Leggendo i tantissimi messaggi, ne esce un quadro dei danni più preciso di quanto venga comunicato dalla protezione civile. E c’è da piangere. «Oh, ragazzi. Al conservatorio Benedetto Marcello è andato sott’acqua l’archivio. C’erano spartiti originali vergati di pugno da grandi compositori. Noi tiriamo su tutto ma ci vorrà l’intervento di un restauratore in gamba!».

LA LIBRERIA «ACQUA ALTA» era segnalata nelle guide più intelligenti come uno dei luoghi magici della Venezia nascosta. Un labirinto indescrivibile di libri, molti dei quali unici o rari, di disegni, fumetti, giochi e lavori in cartapesta, che sembrava una di quelle porte fatata scritte da Hugo Pratt attraverso le quali si entra in un’altra favola. «Qui è andato tutto a remengo (in dialetto significa “alla malora”. ndr). Ci chiedono di venire con dei sacchi portare via tutti i libri che possiamo.

E il massimo aiuto che possiamo dare in queste condizioni». «Con i sacchi? Ma i libri sono bagnati?». «Di asciutto qui non c’è niente! Il proprietario fa un discorso del tipo salviamo il salvabile».

Molti supermercati in città sono chiusi. Altri hanno gli scaffali mezzi vuoti. Quasi tutti hanno i i banchi frigo chiusi. E la roba sta andando a male. «Sono a San Trovaso. Ci sono delle signore anziane che ci hanno chiesto aiuto. I negozi vicini sono chiusi. Dove posso andare a fare la spesa per loro?». «Mandami una lista di cosa vogliono che glielo porto io. Sono a Sant’Alvise e qui vicino c’è un supermercato aperto. Dì loro però che non c’è tanta roba».

«UN NEGOZIO CHE VENDE per lo più prodotti senza glutine, a tre minuti dalla Fondamente Nuove ha perso tutto e ha messo questo cartello (In allegato c’è una foto con un foglio scritto a matita “Prendi ciò che vuoi, lascia quello che vuoi”.ndr) Anche se poco, per loro è un grande aiuto. E poi non vogliono buttare la merce. Ci sono pizze, pizzette, panzarotti e piatti pronti. Tutta roba buona anche se senza frigo tra un po’ andrà a male». «Fai il pieno di panzarotti e portali al Morion che siamo affamati. Tutti i negozi della calle sono chiusi».

«OCCHIO CHE STASERA è prevista un’altra botta!». «La aspetteremo ai nostri posti e domani torniamo a pulire». «Noi andiamo a Rialto ad appendere uno striscione. Poi raggiungiamo il gruppo della Strada Nova. Va ben l’emergenza, ma sentire tutti ‘sti politici che continuano a farsi i selfie in piazza e continuano a parlare di Mose non se ne può più».

ECCOLI QUA GLI ANGELI della laguna. Domani, quando l’emergenza sarà passato e scenderanno in piazza per difendere la città la sua laguna dalle grandi navi, dallo spopolamento e dalla turistificazione, torneranno ad essere chiamati: «le zecche dei centri sociali».

Serenissima stremata di nuovo sott’acqua. E la tregua è lontana

Com'è triste Venezia. Ieri puntuale è arrivata la «granda» annunciata. Oggi ne è prevista un’altra. La macabra processione dei politici per un selfie

Non è ancora finita. Anche ieri l’acqua è tornata crescere ma si è fermata «solo» a 154 cm sul livello del mare. Lo scirocco ha battuto ancora la laguna ma con minor violenza dei giorni precedenti e le previsioni originarie sono state superate soltanto di 14 cm. Che, per come gira di questi tempi, è come dire «quasi niente». Ma oggi si ricomincia a ballare. Il picco sarà a mezzogiorno: previsti 120 cm. Staremo a vedere.
L’UNICA COSA CERTA È che non è ancora finita. E non si sa neppure quando finirà. Anzi, non si sa ancora se finirà o se l’acqua granda che in questi giorni invade calli e campi è destinata a tornare presto, sull’onda dei cambiamenti climatici, senza incontrare difese da parte di una laguna violentata e scavata sino a farne un braccio di mare aperto per far passare le Grandi Navi o per sistemare nei suoi fondali grandi opere come il Mose, con le sue inutili paratie sommerse già corrose da quello stesso mare da cui dovrebbe difenderci.

E’ UNA CITTÀ FERITA E UMILIATA, la Venezia di questi drammatici giorni. Umiliata e ferita da quegli stessi politici che ci fanno passerella per i tempo di un selfie elettorale e farsi riprendere da Tv e fotografi (ieri dopo Berlusconi è stata la volta di Salvini a infilarsi gli stivaloni), scortati da cordoni di poliziotti, indicano il Mose come un’unica soluzione al problema dimenticandosi che il Mose è il problema, e pongono domande come «Perché l’opera non è stata ultimata?» quando dovrebbero invece dare risposte.

Quello che pensano sta tutto in un volantino anonimo, appiccicato sui muri di mezza città. Sopra la foto del sindaco Luigi Brugnaro e del presidente della Regione Luca Zaia, appare la scritta «Coccodrilli in laguna». Sotto si legge: “Il mare entra ormai direttamente a Venezia perché il millenario equilibrio della laguna è stato sconvolto, prima con l’enorme scavo del canale dei petroli e poi con lo squarcio alle bocche di porto per la posa del Mose. Nonostante questo, Zaia e Brugnaro sostengono l’ipotesi di ulteriori scavi, con l’allargamento del canale Vittorio Emanuele e del canale dei petroli per fare arrivare le grandi navi a Marghera. Eppure questi signori sono continuamente in passerella in Tv a mostrarsi impegnati e preoccupati per le sorti di Venezia».

DOVE SIANO RIUSCITI a trovare una stamperia aperta in città, non me lo immagino proprio. I quadri elettrici sono saltati quasi dappertutto. Negozi e supermercati hanno i banchi frigoriferi chiusi, oltre che gli scafali per lo più vuoti. Il rifornimento di cibo sta diventando un’emergenza soprattutto per gli anziani soli che non possono uscire o allontanarsi troppo in una città invasa dall’acqua. In città è arrivato per il governo anche il ministro dei beni culturali Dario Franceschini: «Ci sono danni enormi e massimo impegno da parte dello Stato”, ha assicurato.

LA SITUAZIONE PIÙ CRITICA la troviamo nelle isole. Quelle dimenticate. Quelle che non sono state oggetto di turistificazione di massa, come la bella Pellestrina. L’isola che è il baluardo di Venezia dagli assalti del mare, con la sua lunga costiera di pesanti «masegni» che fanno diga. Durante la mareggiata che ha coperto completamente l’isola, sono morte due persone: un anziano che tentava di mettere in funzione la pompa e un uomo per cause ancora da accertare.

DA LUNEDÌ I NEGOZI SONO chiusi e la gente campa con quello che aveva in dispensa. Anche i collegamenti con Venezia sono saltati e l’unico sistema per raggiungere la terraferma è passare per Chioggia. Sul profilo Facebook del gruppo dei residenti dell’isola, è apparso, senza parole, il fiocco nero del lutto.

L’ACTV, IL TRASPORTO PUBBLICO di Venezia, ha ripreso a funzionare ma è ancora a mezzo servizio, dopo che l’acqua granda ha affondato o pesantemente danneggiato buona parte della flotta. Le immagini dei vaporetti scaraventati sulle fondamente o incastrati tra le calli, hanno fatto il giro del web. Molte linee sono chiuse, in particolare quelle per le isole, e molti approdi inagibili.

Scuole ancora chiuse senza previsione di apertura. Il che ha comunque consentito a tanti studenti di armarsi di moccio e ramazza, e raccogliere l’appello di Fridays for Future andando ad aiutare chi ha bisogni. Anche questa è una lezione non meno importante di quelle di storia o di matematica.

CON GLI STUDENTI, SONO tanti i veneziani, e tanti anche coloro che, pur non risiedendo in laguna, hanno a cuore la sorte della città più bella del mondo, che si sono rimboccati le maniche per risollevare chi ha bisogno di risollevarsi. I centralini della Caritas, che su invito del patriarca Francesco Moraglia si è messa a disposizione della cittadinanza, sono stati letteralmente ingolfati di offerte di aiuto provenienti da tutte le regioni di Italia. “Servono in particolare elettricisti ed idraulici – spiega la signora Francesca che coordina gli aiuti – ma si sono già offerte parecchie persone. Adesso vediamo di destinarle dove c’è più bisogno”.

LA MENSA POPOLARE della Tana è aperta 24 ore su 24 per offrire un pasto caldo a chi ne ha necessità. Sempre la Caritas, ha messo a disposizione dei posti letto e tre anziane signore con la casa allagata hanno potuto passare al caldo e, soprattutto, all’asciutto, queste tragiche notti di acqua granda.

La «rivolta» del clima in Consiglio regionale

Il consiglio regionale boccia gli emendamenti contro i cambiamenti climatici. Due minuti dopo, l’aula si allaga. Il presidente Luca Zaia e i consiglieri sono costretti ad interrompere la seduta ed a scappare a casa. E’ accaduto a Venezia, nella serata della grande mareggiata. La sede del Consiglio Regionale Veneto si trova a palazzo Ferro Fini, uno splendido edificio che si specchia nel Canal Grande. Ed è proprio dal «canalasso» che l’acqua è improvvisamente entrata nel palazzo, superando le paratie stagne e invadendo l’aula.Non se lo aspettavano i consiglieri che, in fretta e furia, hanno preso armi e bagagli e son battuti in ritirata, lasciando segretari e personale di servizio a mollo. Andrea Zanoni, consigliere del Pd, ha diffuso nei social le immagini dell’alluvione, sottolineando: «Ironia della sorte, l’acqua è arrivata due minuti dopo che la maggioranza Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia aveva bocciato i nostri emendamenti per contrastare i cambiamenti climatici che chiedevano finanziamenti per le fonti rinnovabili e per la sostituzione degli autobus a gasolio». Bocciatura che non stupisce. I consiglieri veneti di maggioranza sono per lo più dei noti negazionisti e i loro profili social sono famosi per le battutacce su Greta e i «gretini», come chiamano i ragazzi di Fridays for Future.

Senza tregua, per oggi previsti 145 centimetri sopra il livello del mare

Venezia. Ma la città non si arrende, con decine di persone che lavorano nella calli per ripulirle


Il giorno dopo la grande alluvione, Venezia si è risvegliata con l’acqua alla gola e un dolore a livello del mare. Tanto per citare una nota canzone di Francesco Guccini. La grande paura non è ancora passata. L’ultimo sms del Centro Maree ha avvisato i residenti che per oggi è atteso un altro picco di marea alle ore 11 e 20. Sono previsti 145 cm sopra il livello del mare. Un allarme rosso secondo che la scala delle maree sta a significare in codice una «alta eccezionale». Si tratta comunque di una marea gestibile con i consueti accorgimenti ai quali i veneziani si sono dovuti assuefare da quando, con lo scavo del canale dei Petroli e gli interramenti di Porto Marghera del dopoguerra, l’equilibrio idrogeologico della laguna è stato alterato per sempre.

Chi abita nei piani più bassi ha piazzato le paratie in acciaio davanti alla porta, nei negozi e nei bar le pompe sono pronte ad entrare in funzione. Le barche legate saldamente alle bricole, ma con il lasco necessario a farle muovere senza strappi e con i parabordi ben piazzati. Nei magazzini, le merci e tutto quello che ha a che fare con l’elettricità alzato nei ripiani superiori.

La protezione civile ha messo in sicurezza quello che si poteva mettere in sicurezza e ha piazzato le passerelle sulle strade principali per consentire alle persone di spostarsi e raggiungere i punti nevralgici della città come piazzale Roma, da dove partono gli autobus per la terraferma, e la stazione dei treni.

Insomma, tutto è pronto per un’altra battaglia. La domanda è: basterà? Sempre il Centro Maree ha avvisato sui suoi canali internet che «sono previsti venti di Scirocco lungo l’Adriatico». Proprio quel vento caldo e umido che soffia da sud est e che in laguna significa «acqua alta» perché spinge la marea dentro le bocche di porto e, cosa ancora più pericolosa, le impedisce di uscire al momento della «dozana», la marea calante. Proprio quel vento che, soffiando a 100 chilometri all’ora, è stato una delle principali cause del disastro di martedì.

L’altra causa, quella ancora più impattante e pericolosa, è sempre la stessa: l’uomo. O il capitalismo, come scriverebbe qualcuno. Fatto sta che queste mareggiate non sono un disastro naturale. Tanto è vero che non si verificavano ai tempi dei dogi, quando attentare all’incolumità della laguna era l’unico reato per cui il consiglio dei Dieci ti poteva condannare a morte. «I canali profondi delle bocche di porto, scavati per far passare le grandi navi e per realizzare il Mose fanno affluire migliaia di metri cubi d’acqua nella laguna consegnando Venezia a una marea di una violenza inaudita», hanno spiegato in una nota le ragazze ed i ragazzi di Fridays for Future che hanno deciso di spostare a Venezia, al laboratorio Morion, la loro assemblea che era programmata in terraferma. Per tutta la mattina, in stivali e tuta da lavoro, armati di badili e di sacchetti delle immondizie, hanno battuto la città, pulendo dove c’era da pulire e aiutando chi aveva bisogno. I social e le chat hanno fatto da mezzo di comunicazione per organizzare il lavoro ed indirizzare gli sforzi verso le scuole più colpite, il conservatorio, i tanti musei, senza dimenticarsi «il kebabaro vicino al liceo Benedetti», come scritto in un WhatsApp che avvertiva: «gli è partito il frigorifero ed ha bisogno di un elettricista».

«Oggi ho visto una città che si è svegliata con la voglia di continuare a vivere e di costruire un percorso comune – ha evidenziato il rettore di San Marco, Amerigo Restucci -. In mezzo a tanta devastazione, c’erano giovani che giravano per le calli per ripulirle. Il libraio vicino all’università aveva già aperto il suo negozio e sistemato in una bancarella i libri un po’ rovinati dall’acqua, con un cartello che diceva che, chi li voleva leggere, se li poteva prendere gratuitamente. Questo evento catastrofico potrebbe essere un’occasione per ritrovare un senso civico che si stava perdendo e per mettere in campo quello che sino ad oggi è mancato alla politica: un vero progetto di salvaguardia diffuso, basato, più che sul cemento e sulle grandi opere, su quegli interventi di bonifica e di riequilibrio idrogeologico che possono davvero contrastare questi fenomeni atmosferici estremi ai quali andremo incontro sempre più frequentemente».

A tutto Mose. Saltano i vertici, arriva la supercommissaria

Com'è triste Venezia. È Elisabetta Spitz, ex direttrice dell’Agenzia del Demanio E Conte annuncia i primi, insufficienti, finanziamenti

Piazza San Marco, dopo la grande mareggiata, è una passerella d’alta moda di politici con la faccia indignata e gli stivali ai piedi. Tutti a sottolineare la vergogna nazionale di un’opera costata miliardi e ancora lontana dal venir realizzata. Tutti. Anche chi, come il presidente della Regione Veneto Luca Zaia, qualche responsabilità sulla mancata realizzazione dell’opera in questione, potrebbe cercarla a casa sua, sin da quando era il delfino di Giancarlo Galan – già presidente della sua Regione, caduto in disgrazia proprio in virtù degli scandali giudiziari connessi con quel sistema di malaffare istituzionalizzato chiamato Mose.

Il piagnisteo ricorrente, come lo ha definito Gianfranco Bettin, è sempre lo stesso: «Se il Mose fosse stato realizzato come avrebbe dovuto – e se non lo è stato è colpa degli altri partiti e non del mio – la mareggiata di lunedì non avrebbe messo in ginocchio la città». Di alternative alla grande opera, di lavori di riequilibrio del sistema idrogeologico o, più banalmente, di interventi di compensazione al Mose, perché non va dimenticato che l’aumento della frequenza e della violenza di queste mareggiate va imputata soprattutto agli scavi dei canali di accesso alla laguna effettuati proprio per sistemare le paratoie dell’opera, nessun accenno.

E COSÌ, ECCO IL SINDACO Luigi Brugnaro, altro accanito sostenitore del Mose, che lamenta ritardi e mancati finanziamenti, scordando di essere uno dei sostenitori più accaniti delle Grandi Navi e del progetto di scavo di una ulteriore autostrada d’acqua in laguna per farle entrare in porto. Quel che ci mancava per compromettere definitivamente l’ecosistema lagunare e trasformare la laguna in un braccio di mare aperto.

Chi non indugia nel piagnisteo, si sbilancia in previsioni tutte da dimostrare e dà il via al solito teatrino delle promesse. Promesse che i veneziani si sentono ripetere da sedici anni. L’opera infatti doveva essere pronta nel 2014 e costare “solo” 3,4 miliardi di euro, contro gli 8 ai quai siamo vicini ora. E senza contare le paurose spese di manutenzione previste.

«Per il Mose siamo nella dirittura finale – ha azzardato il premier Giuseppe Conte – . Siamo al 92 o al 93 per cento dell’opera e, guardando all’interesse pubblico, non c’è che da continuare nel completamento di questo percorso. Il Mose va completato e poi mantenuto». Proprio sulla manutenzione, che si prevede costosissima, e sulla spartizione di quest’ultima «torta» miliardaria si giocherà l’ultima partita del Mose.

LA DATA DELL’INAUGURAZIONE intanto slitta di anno in anno. L’ultimo comunicato del Consorzio Venezia Nuova, parla del 2021. Ma è notizia di quasi un anno fa. Poi, lo scorso 4 novembre, i tecnici han tentato di sollevare una paratoia a mo’ di test e si sono accorti che il giocattolo si era già rotto. L’acqua salata e gli organismi infestanti di cui la laguna è piena avevano corroso tutto il sistema di cardini. Tutto rinviato a data da destinarsi e altri soldi per la voce «manutenzione».

Ma se il gioco degli «imprevedibili problemi tecnici» e dello spostamento continuo della data di inaugurazione risulta credibile in condizioni normali, dopo un disastro come quello di martedì, il banco salta. A farne le spese sono i vertici del Consorzio mandati a casa per fare spazio alla nuova super commissaria che sarà Elisabetta Spitz, già direttore dell’Agenzia del Demanio. Classe ’53, architetta, la Splitz ha alle spalle una lunga carriera nelle strutture burocratiche statali. E’ l’ex moglie di Marco Follini (Udc) ed è stata definita «la regina degli immobili pubblici».

Assieme alla dichiarazione dello stato di calamità, dal governo arriva una promessa di indennizzo per chi è stato danneggiato dall’acqua alta. Giuseppe Conte ha parlato di 20 mila euro agli esercenti e di 5 mila ai privati. Cifre che hanno già fatto storcere il naso a chi, proprietario di una gondola o di un taxi, ha visto sfasciarsi la sua imbarcazione che costa quanto una Ferrari.

I DANNI CHE L’ACQUA «granda» ha causato alla città, più che sulle migliaia, si contano sui milioni di euro. Senza contare quello che nessun conto in banca potrà mai risarcire: la perdita o il danneggiamento di opere d’arte uniche al mondo. Un quadro questo che avremo chiaro solo nei prossimi giorni. Augurandoci che lo Stato trovi perlomeno i mezzi, i finanziamenti e la progettualità per mettere in sicurezza il patrimonio rimasto e far sì che le acque «grandi» a Venezia non arrivino più.

Il procuratore di San Marco: «Siamo gli artefici della nostra cattiva sorte»

Intervista. Parla Arrigo Restucci: «Non c’è nessuna progettualità seria per difendere Venezia dal mare e dagli altri seri pericoli»

Drammatizzando non si risolve nulla. Anzi, si complicano le cose e si impedisce la costruzione di una vera progettualità capace di governare il problema. Arrigo Restucci, già rettore dell’Università di Venezia e Procuratore di San Marco, scomoda Niccolò Machiavelli per spiegare che prevenire è sempre meglio di curare.

«Sul Principe il grande filosofo scriveva che se non si sistema l’alveo dei fiumi, alla prima piena questi inonderanno, se non si puliscono i campi dalle sterpaglie, al primo focolaio di incendio, brucerà tutto. Allora non diciamo che la fortuna ci ha voltato le spalle ma che siamo stati noi gli artefici della nostra cattiva sorte. Per Machiavelli, provvedere a ciò è compito del Principe. Oggi noi diremmo lo Stato, ma il discorso non cambia. Il disastro di oggi a Venezia è stato causato sì da condizioni meteorologiche avverse, ma se le amministrazioni avessero provveduto a pulire i canali per facilitare il deflusso, a difendere gli argini delle rive ed a mettere in atto tutte quelle operazioni di prevenzione necessarie, oggi non ci troveremo in queste condizioni. Queste sono cose che la Serenissima col suo buon governo faceva regolarmente e che oggi non si fanno più».

Alcuni sostengono che lo Stato ha fatto – e speso! – sin troppo per Venezia realizzando il Mose. Che ne pensa?

Il Mose è un progetto nato già vecchio. Ricordo la lungimiranza dell’ex sindaco Massimo Cacciari, che io considero l’ultimo epigone della Serenissima, che aveva bocciato il progetto sostenendo che era inutile, oltre che costoso. Oggi abbiamo visto che aveva ragione. Abbiamo speso 5 miliardi per un’opera sommersa che, quando un mese fa abbiamo provato ad alzare una paratoia, è andata subito in crisi. Con questo denaro, anzi con molto meno, si sarebbe potuto alzare la pavimentazione di piazza San Marco, mettere in sicurezza tutte le rive, risistemare l’ambiente lagunare che ha sempre fatto da polmone a Venezia. Se avessimo investito in questa direzione, oggi non saremmo in queste condizioni.

Il sindaco Luigi Brugnaro e il presidente della Regione Luca Zaia continuano a sostenere il Mose. Anzi, dicono, proprio quanto è avvenuto dimostra che l’opera è necessaria.

Ragionano da politici. Dicono che, visto che è pronta al 99 per cento, tanto vale finirla e poi vediamo. Io qui alzo le braccia. Molti ingegneri affermano che ci sono forti dubbi sulla tenuta e sulla tecnicità dell’opera. Vorrei avere dei dati più certi prima di esprimermi. Ma il vero punto è la prevenzione. Il rischio del Mose è che, una volta in funzione, con gli altissimi costi di manutenzione che avrà, assorba i finanziamenti destinati ad una vero piano di difesa della città. Venezia è una città fragile. Una città sotto gli occhi di tutto il mondo. Eppure non c’è nessuna progettualità seria per difenderla dal mare e dalle altre criticità che la mettono in serio pericolo.

Questa alluvione ha colpito Venezia al cuore. E il cuore di Venezia è nella cripta della Basilica, il punto più basso della città, che è stato completamente sommerso dopo oltre mezzo secolo.

Già. La Basilica ha un suo sistema di pompe ma non è bastato a contenere un assalto così massiccio della marea. Nei prossimi giorni faremo la conta dei danni. Auspico che quanto accaduto si trasformi in un buon punto di partenza per mettere in campo quella indispensabile progettualità di buon governo cui accennavo. Questa acqua alta ci è costata tanto ma dobbiamo tirare fuori la capacità di farne un punto di partenza per un nuovo inizio. La città si sta svegliando. Le calli sono piene di persone che si stanno dando da fare per ritornare a vivere. Il patriarca ha dato l’esempio mettendo a disposizione di chi ha perso la casa tutte le strutture della Caritas. Seguiamo il suo esempio, recuperando una etica civile che sta scomparendo. E seguiamo anche l’esempio del padrone dell’Harry’s Bar che, acqua alta o no, questa mattina si è messo gli stivali e ha aperto il suo bar.

Nella notte da incubo, la città lagunare si scopre a rischio

Com'è triste Venezia. L’allarme del Servizio Maree andato in tilt, paura e sconforto. I cittadini fanno da sé. Luigi Bugnaro e la sua maggioranza sotto accusa per aver smantellato il sistema di allerta precoce


La paura è arrivata alle 10,30 di sera, l’ora in cui avrebbe dovuto cominciare il deflusso e pareva che anche questa ondata di “acqua alta” si fosse conclusa col “solito” disastro di primi piani allagati, magazzini pieni di merci da buttare, tavolini dei bar che se ne vanno a spasso per le calli, qualche barca disormeggiata e catapultata in mezzo ad un campo. Il solito refrain di un normale novembre veneziano ai tempi del Mose, insomma.

A FAR CAPIRE CHE STAVOLTA Venezia non se la sarebbe cavata a buon mercato sono state le sirene che in laguna annunciano l’arrivo dell’alta marea e che, proprio nel momento in cui tutti si aspettavano il deflusso si sono messe ad ululare tra campi e calli come se non volessero più smettere, gelando il cuore dei veneziani. «Un’altro ’66», hanno pensato i più anziani, ricordando la grande mareggiata che aveva messo in ginocchio Venezia, 50 anni prima.


E LA PRIMA COSA DA DIRE è che non se lo aspettava nessuno. Certo, sarebbero stati due, forse tre giorni di alte maree eccezionali. Lo si sapeva. Per due volte, in questi giorni, seguendo il ritmi della luna, l’acqua avrebbe dovuto raggiungere i 140 cm, forse anche 145 cm e portare le solite, nefaste, conseguenze, alle quali però i residenti sono abituati. Il giorno prima inoltre, lunedì, la situazione era andata meglio del previsto e il livello dell’acqua si era fermato dieci centimetri sotto quanto annunciato. I più speravano che la cosa si sarebbe ripetuta anche mercoledì.

NON È STATO COSÌ. L’Ufficio Maree aveva previsto un massimo di 145 cm per la sera ma quel massimo era già stato raggiunto due ore prima. E superato, pure. Il vento forte di scirocco che ululava nei canali e la corrente che aveva trasformato ogni calle in un torrente in piena, dipingevano una Venezia da apocalisse. Chi abitava nei primi piani ha dovuto abbandonare casa, salvando il salvabile. Fondamenta e salizade erano riempite di commercianti che cercavano di portare all’asciutto le loro merci. Le pompe dei magazzini e delle entrate dei condomini lavoravano senza sosta ma, quando l’acqua saliva di un certo livello, anche loro diventavano inutili. Così come le piccole paratoie sistemate davanti agli usci delle case, adatte a fermare solo le altre maree “normali”.

Nei cellulari dei veneziani rimbalzavano gli sms di allarme del Servizio Maree. Uno più preoccupante dell’altro. «Condizioni meteo peggiori di quanto previsto. Prossimo max 155, 160 cm h 23 di oggi 12/11». Un’ora dopo, alle 21,45: «Ulteriore peggioramento meteo. Previsti 170 cm alle ore 23 di oggi. Marea eccezionale, codice rosso». Un’altra ora, un’altra previsione ancora peggiore. «La laguna subisce gli effetti di non previste raffiche di vento da 100 km orari. Il livello potrete raggiungere i 190 cm alle 23,30». Quasi due metri sopra il livello del mare!

MA COME MAI UNA TALE confusione in previsioni così breve termine? L’Ufficio Maree era una delle perle dell’amministrazione del Comune di Venezia. Le sue previsioni sempre puntali e precise. Una delle prime operazioni della nuova giunta fucsia – una giunta né di destra né di sinistra come sottolinea sempre il sindaco Luigi Bugnaro ma che ha nella sua maggioranza Lega e Fratelli d’Italia – è stata quella di smantellare il servizio, privandolo di fondi e pensionando i tecnici che avevano espresso dubbi sul sistema Mose diffondendo statistiche secondo le quali, da quando hanno cominciato a scavare per l’opera, le maree in laguna sono sempre più frequenti. E i risultati del cambio di gestione si sono visti sin da subito.

ALLA FINE, AD AVERE PIETÀ di Venezia è stato il vento. Alle 22,50 lo Scirocco è calato, permettendo all’acqua di defluire verso il mare. Ma il picco raggiunto è stato da record: 187 centimetri. Mai così alta nell’ultimo mezzo secolo. Soltanto in quel famoso 4 novembre del ’66 era stato registrato un livello superiore: 194 centimetri sul livello del mare.

QUESTA MATTINA LA CITTÀ si è risvegliata da una notte quasi insonne contando i danni. Un pensionato di 78 anni dell’isola di Pellestrina è morto fulminato nel tentativo di azionare la pompa di casa, molti battelli e motoscafi delle linee di servizio sono stati devastati. Nel web girano incredibili ma vere immagini di battelli disormeggiati e scaraventati di traverso alle fondamenta. Anche il patrimonio artistico ha subito devastazioni ancora tutte da verificare. La Basilica è stata sommersa. San Marco, d’altra parte, è uno dei punti più bassi di Venezia. Ma anche Ca’ Pesaro e il suo museo, il Teatro La Fenice sono stati invasi dall’acqua del mare.

E POI CI SONO I DANNI SUBITI dai cittadini: case devastate, magazzini sommersi con tutto quello che c’era dentro, negozi chiusi e pieni di merci rovinate, gondole sfasciate incastrare nelle calli, taxi e imbarcazioni rovinate o finite chissà dove. I conti si faranno nei prossimi giorni. Ma si sa che saranno salati come l’acqua che li ha causati. Intanto si lavora per ritornare a vivere, senza stare a sentire il telegiornale che dava notizie del genere: «Acqua alta a Venezia. Disagi per i turisti». I residenti si sono rimboccati le maniche e si sono organizzati in squadre di volontari. Servono soprattutto elettricisti perché l’acqua ha fatto saltare i quadri elettrici di mezza città.

BRUGNARO, IL SINDACO FUCSIA di Venezia, ha chiesto al Governo di dichiarare lo stato di calamità naturale. Si è fatto fotografare con gli stivaloni davanti alla Basilica quando l’acqua era già scesa sotto i livelli di guardia ed ha spiegato che: «Questi sono evidentemente gli effetti dei cambiamenti climatici. Adesso tutti avranno capito che il Mose serve». Quindi se l’è presa con i “finti ambientalisti” che non gli permettono di difendere a colpi di cemento la città.

DICHIARAZIONI CHE HANNO immediatamente sollevato l’indignazione di tanti veneziani. «Parole che sintetizzano l’orrore politico di cui questa città è vittima, la lucida follia e la corruzione morale che il nostro primo cittadino incarna – hanno commentato le ragazze ed i ragazzi del centro sociale Morion in una nota – Il nostro sindaco chiama in causa i cambiamenti climatici per allontanare le responsabilità politiche».

Mose e cambiamenti climatici infatti, non vanno affatto d’accordo. Se l’opera dovesse funzionare in uno scenario realistico di drastico innalzamento del livello del mare, previsto nell’arco di pochi decenni, le paratoie dovrebbero rimanere sollevate per più di sei mesi l’anno, come conferma uno studio della rivista Nature. Il che significherebbe la morte della laguna che dal mare riceve vita, ossigeno e nutrimento.

FA ECO UN COMUNICATO dei No Navi: «Quello che è successo non è una fatalità: l’acqua alta fa da sempre parte della vita della laguna, ma picchi del genere non sono naturali. Questi picchi arrivano se si scavano canali nuovi, cambiando per sempre l’equilibrio lagunare. Arrivano se si tagliano i fondi al Centro Maree, che non è più in grado di garantire un’efficenza totale. E non raccontiamoci bugie: non sarà il Mose, una grande opera devastante, costata miliardi, mai finita, fonte di speculazioni e tangenti, a risolvere la situazione!».

VENEZIA NON È SOLO un sindaco fucsia, il Mose o le grandi navi. È anche le ragazze e i ragazzi di Fridays for Future che, prima di rimboccarsi le maniche per andare ad aiutare chi ne aveva bisogno, sono andati in piazza a farsi una foto dietro un grande striscione che diceva: «La marea sta crescendo, e così anche noi».

Tappeti rossi per il clima. Fridays For Future occupa il Red Carpet

Un giorno da Leoni. Protesta simbolica di centinaia di giovani alla mostra del Cinema, poi marcia in Laguna contro cambiamenti climatici e Grandi navi

Un flash mob, una marcia, l’occupazione del red carpet e pure una battaglia navale. Il Climate Camp non si è fatto mancare nulla e ha voluto dimostrare al mondo che alle parole debbono seguire i fatti. Tante le iniziative di lotta che hanno colorato il primo campeggio climatico di Venezia: dal flash mob stesi per terra con la mascherina al viso, organizzato dalle ragazze e dai ragazzi di Fridays For Future e messo in scena davanti ai cancelli della 76esima Mostra del Cinema di Venezia il 28 agosto, giorno dell’inaugurazione, sino alla grande e partecipata marcia per il clima che si è svolta nel pomeriggio di ieri, lungo i viali alberati del Lido.

LE BANDIERE LAGUNARI dei No Navi hanno sventolato assieme agli striscioni ambientalisti di tanti comitati come Ende Gelände, il movimento tedesco che si batte contro la miniera di carbone in Vestfalia. A far da colonna sonora, i giovani di Fridays For Future che si sono ingegnati con tamburelli e altri percussioni. Ad aprire il corteo composto da migliaia di persone e dar voce all’impianto di altoparlanti, il furgoncino messo a disposizione dagli spazi sociali del Veneto. Furgoncino, ovviamente ad energia solare, «perché le parole e le azioni hanno detto gli attivisti vanno supportati con mezzi coerenti».

Una battaglia emblematica questa dei No Navi perché contrappone la tutela della salute dei cittadini e della difesa della città e dell’ambiente, ai profitti miliardari delle compagnie di crociera. Una battaglia che, in fin dei conti, è la stessa di tutti i movimenti dal basso e di tutti i tanti comitati che difendono il territorio. Magliette, cartelloni, striscioni e bandiere che coloravano il corteo, rappresentavano le tante battaglie che si stanno combattendo in Italia e in Europa, da quelle contro i Pfas e la Tav a quelle contro le autostrade e l’estrattivismo.

La marcia si è conclusa davanti ad un serrato spiegamento di forze dell’ordine che ha impedito ai manifestanti di raggiungere il palazzo della Mostra del Cinema. «La polizia ci sbarra la strada, ma non tiene conto che sul Red Carpet ci siamo già stati stamattina!» hanno ironizzato gli ambientalisti.

LA MANIFESTAZIONE pomeridiana infatti è stata preceduta nella mattinata da una vera e propria occupazione del Tappeto Rosso dove i divi fanno passerella. Tappeto che per ben sette ore si è colorato di verde. Prima dell’apertura dei cancelli della mostra, qualche centinaio di giovani con la tuta bianca era riuscita a raggiungere ed a sedersi sopra il famoso tappeto, preparandosi ad una azione di resistenza passiva. Man mano che la notizia girava sui social, gli attivisti sono stati raggiunti subito da altre centinaia di simpatizzanti, sino a coprire tutto il Red Carpet, prima che la polizia stringesse i cordoni, impedendo anche l’arrivo di rifornimenti come l’acqua e il cibo.

PAROLE DI SUPPORTO e di incoraggiamento ai manifestanti sono arrivate da vari artisti presenti alla Mostra tra i quali Roger Waters e Mick Jagger. «Sto tutto dalla parte dei ragazzi che protestano ha dichiarato la stella dei Rolling Stones saranno loro che erediteranno il pianeta».

SILENZIO IMBARAZZANTE invece da parte dei vertici della Mostra che non si sono neppure degnati di commentare l’iniziativa. Ma per ben sette ore le ragazze ed i ragazzi hanno tenuto duro, senza mollare un solo centimetro di tappeto. È la prima volta, in tutti i 76 anni di storia della Mostra, che degli attivisti riescono a mettere piede sopra il Red Carpet dei divi. Ci sono riusciti ieri per dare voce ad una battaglia, quella per il clima, che non dovrebbe essere ignorata da nessuna istituzione perché è la battaglia per il futuro della terra. «Il nostro pianeta sta bruciando! hanno urlato al megafono È il momento di mobilitarci tutti, di prendere veri provvedimenti, di reclamare a gran voce e senza sconti giustizia climatica e sociale». L’occupazione del Red Carpet è stata preceduta il giorno prima, venerdì 6, da una azione altrettanto clamorosa e portata a termine per di più sotto un autentico nubifragio.

UNA VENTINA DI BARCHE, con a bordo una delegazione internazionale, è salpata dal Lido di Venezia per dirigersi lungo il canale della Giudecca e compiere una direct action, come hanno chiamato l’azione di disturbo, nei confronti della Msc Lirica, una delle tante Grandi Navi che continuano a scorrazzare impunemente dentro la laguna, nonostante l’inquinamento comprovato, gli evidenti rischi per la città storica, la devastazione del delicato equilibrio che regola l’ecosistema lagunare e le inutili dichiarazioni e le ancor più inutili promesse di trovare una soluzione di tanti ministri e governi. L’arrivo delle barche della polizia che hanno cercato di allontanare le imbarcazioni degli ambientalisti ha scatenato una sorta di battaglia navale in una laguna per di più movimentata dal brutto tempo e dall’incessante moto ondoso. Nel frattempo, dal molo del Lido, alcune centinaia di attivisti rimasti a terra gridavano «Fuori le navi dalla laguna».

È questa e solo questa infatti la soluzione che i veneziani chiedono. E non certo lo scavo devastante di altri canali o la realizzazione di altre strutture portuali. La politica delle Grandi Opere ha già fatto troppi danni. Ora è tempo difendere quel che rimane dell’ambiente e di chiedere per tutto il pianeta giustizia climatica.

I cinque giorni dell’altro Lido, il campeggio a «impatto zero»

Un giorno da Leoni. Al meeting veneto dei ragazzi di Fridays For Future forum su Grandi opere, migrazioni e ecofemminismo

Batteria Ca’ Bianca è una grande area demaniale abbandonata situata proprio nel bel mezzo del Lido di Venezia. Ai tempi della prima guerra mondiale, era un forte militare e dalle grandi finestre di marmo bianco uscivano minacciose le bocche dei cannoni. Ai tempi nostri, solo un nutrito branco di grosse capre selvatiche riesce a farsi largo tra le grandi erbacce che hanno conquistato tutti i muri e nessuno direbbe che, solo a poche centinaia di metri qui, scintillano le luci della Mostra del Cinema di Venezia ed i grandi divi fanno passerella tra gli ammiratori a caccia dia autografi.

«C’è voluto una settimana di lavoro ai nostri quaranta attivisti, per ripulire tutto, fare amicizia con le capre e rendere l’area utilizzabile spiega Anna Irma Battino di Global Project -. Come se non bastasse, all’ultimo momento abbiamo dovuto occupare un terreno qui vicino perché l’area che avevamo previsto per il campeggio si è rivelata insufficiente. Attendevamo 800 partecipanti ed invece sono arrivati in mille. Ragazze e ragazzi da tutta Europa. Germania, Austria e Spagna, in particolare. Comunque, quando finalmente abbiamo appeso il grande striscione con la scritta ‘Climate Campo Venezia’, è stata una bella soddisfazione per tutti».

È stato inaugurato così, mercoledì 4 settembre, il primo campeggio internazionale di Venezia dedicato al grande tema dei cambiamenti del clima. O meglio, della giustizia climatica, come preferiscono puntualizzare le ragazze ed i ragazzi di Fridays For Future e del comitato No Grandi Navi che hanno organizzato questa «cinque giorni» di campeggio che si è concluso ieri pomeriggio. Giustizia climatica perché, senza inserirlo in un contorno più ampio di lotta contro un sistema economico basato sul solo profitto e sulla mercificazione di beni comuni e diritti umani, l’ambientalismo come spiegava Chico Mendes non sarebbe che giardinaggio. E al giardinaggio si sono già abbondantemente dedicati ripulendo tutta quell’area! Tre sono stati i grandi temi in cui si sono sviluppati i seminari e le discussioni del Camp: grandi opere, migrazioni ed ecofemminismo. I tre principali scenari in cui si svilupperà la battaglia per la giustizia climatica.

Una battaglia che vede Venezia in prima fila. E non solo perché sarà la prima città italiana a patire gli effetti di un innalzamento del livello del mare. «Da questa città in cui i finanziamenti destinati alla salvaguardia sono stati dirottati alla realizzazione di una grande opera come il Mose che, oramai è chiaro a tutti, si è rivelata fallimentare e devastante per l’ambiente; da questa città dove le grandi ed inquinanti navi da crociera continuano a transitare indisturbate a pochi metri da piazza San Marco ha spiegato l’attivista Marco Baravalle proprio da questa città fondata su un irripetibile equilibrio tra mare e terra, vogliamo lanciare un appello affinché venga invertita una rotta che non porta verso nessun futuro, fermando la politica delle grandi opere e del consumo indiscriminato del suolo, per tutelare l’ambiente e la biodiversità. Perché, proprio come non abbiamo un pianeta B, non abbiamo neppure una Venezia di riserva».

Venezia ed ambiente è un binomio di sicuro impatto e che non poteva non trovare eco alla Mostra del Cinema. Tra gli artisti che hanno sottolineato la loro vicinanza al Camp, va ricordato l’intero cast di Effetto domino, il film di Alessandro Rossetto, che sono saliti nella pedana delle premiazioni con la maglietta No Grandi Navi. Tra i relatori che hanno animato i pomeriggi e le serate del Camp, contribuendo ad assegnargli una vera patente di internazionalità, citiamo Moira Millán, portavoce del popolo mapuche della Patagonia e coordinatrice del «Movimiento Mujeres Indigenas por el Buen Vivir», il filosofo austriaco Gerald Raunig e il suo conterraneo Oliver Ressler, l’attivista climatico nigeriano Nnimmo Bassey, la spagnola Margalida Maria Ramis Sastre del gruppo Defensa de la Naturalesa e l’italiano Marco Armiero direttore dellEnvironmental Humanities Lab del Royal Institute of Technology di Stoccolma.

Tutti insieme per cinque giorni, a discutere in inglese, spagnolo, francese e italiano, trascorrendo le serate a guardare film o a cantare in spiaggia dietro ad una chitarra. Il tutto, c’è bisogno di dirlo?, ad impatto zero. Cucina vegana, stoviglie e bicchieri monouso da lavare con detersivi ecocompatibili, energia fotovoltaica e raccolta differenziata. Erbacce a parte, anche la flora del litorale è stata rispettata. E anche la fauna, vale a dire le capre, sono state ben contente di accettare il pane che avanzava dalle mani dei loro ospiti umani.

Pericolo Grandi navi, Venezia non vuole trovare la soluzione

Venezia. Torna la possibilità di costruire un banchina a Marghera. Protestano gli ambientalisti: colossi del mare fuori dalla città

Domenica mattina, ore 8,35. La nave da crociera Msc Opera ha appena superato il bacino di San Marco e naviga alla velocità di 5,5 nodi nel mezzo del canale della Giudecca. E’ una delle «Grandi Navi» il cui devastante impatto sul delicato equilibrio lagunare è sempre stato denunciato dagli ambientalisti veneziani: una sorta di villaggio turistico galleggiante lungo 275 metri e con una stazza di 65mila tonnellate che da ferma inquina quanto 15.500 auto.
Tanto è vero che sotto il ponte di Rialto sono state misurate più polveri sottili che ai bordi di una autostrada a tre corsie. Giunta a ridosso alla banchina d’ormeggio a San Basilio, la nave dovrebbe rallentare ma così non accade. Secondo le prima indagini, la colpa sarebbe da imputarsi ad un non meglio definito «black out» del sistema di navigazione. Un evento che le compagnie di crociera avevano sempre giudicato «impossibile alla luce delle moderne tecnologia» ma che ha comunque causato altri abbordi come quello al porto di Genova. Fatto sta che la nave non riesce a fermare il suo abbrivio. Le cime da traino di sicurezza dei due rimorchiatori che la scortavano si spezzano.
L’Msc Opera continua la sua corsa e, seminando panico tra le persone che attendevano l’arrivo della nave, costrette a fuggire disordinatamente, va a schiantarsi tra la banchina del porto e una lunga lancia fluviale ormeggiata. La lancia viene fracassata, ma ha il merito di attenuare l’urto. Qualcuno finisce in acqua, quattro donne finiscono all’ospedale con contusioni e ferite di lieve entità. Il video dell’abbordo girato da un testimone che si trovava nella banchina d’ormeggio, finisce sulla rete e fa rapidamente il giro del mondo.

«UN DISASTRO ANNUNCIATO – ha dichiarato Tommaso Cacciari, portavoce del Comitato No Grandi Navi – che questi grattacieli galleggianti siano incompatibili con la laguna e che non possano navigare in canali che sono stati realizzati per gondole o barche a vela, lo diciamo da sei anni. La politica non ha fatto niente. E oggi abbiamo rischiato il morto. L’incidente ha dimostrato che non soltanto queste grandi navi inquinano l’atmosfera e devastano le fragile struttura palafitticola che sorregge la città, ma sono anche pericolose. È ora di buttarle fuori dalla laguna». Il comitato ha indetto una assemblea cittadina ai Magazzini del Sale, mercoledì alle 17,30, in cui si preparerà la mobilitazione di sabato prossimo alle ore 16 alle Zattere.
Intanto che il mondo si interroga su cosa sarebbe potuto succedere se l’Msc Opera avesse perso il controllo dieci minuti prima e avesse speronato Palazzo Ducale, la politica si è svegliata dal letargo. Soltanto che le «soluzioni» che propone sono, se possibile, peggiori del male. Tanto il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, quanto la Regione e l’Autorità Portuale hanno colto la palla al balzo per rilanciare il progetto, più volte bocciato dalla commissione Via (ma questo a Venezia non vuol dire nulla perché anche il Mose era stato bocciato dalla commissione di impatto ambientale), di dirottare le grandi navi lungo il canale Vittorio Emanuele.
Una strada d’acqua che eviterebbe la «passerella» davanti al salotto buono di Venezia, il bacino di San Marco, dirottando il problema in terraferma, con la realizzazione di una banchina a Marghera. Soluzione per la quale si è espresso anche il vicepremier Matteo Salvini che non ha perso occasione di addossare tutta la colpa del mancato intervento ad un non espressamente citato “ministro dei 5 Stelle” che avrebbe messo il classico bastone sulle ruote al Governo del Cambiamento.

DI CHI SI TRATTA? Il primo indiziato è Danilo Toninelli, che il leader della Lega non ama di sicuro. Ma è più probabile che il «colpevole» sia Sergio Costa, ministro dell’Ambiente. Sono proprio gli studi messi a punto dai tecnici di questo ministero che hanno impedito che cominciassero i lavori per l’ampliamento del Vittorio Emanuele per farci passare le grandi navi. Scavi che comprometterebbero definitivamente quello che rimane del fragile equilibrio morfologico e idrogeologico della laguna, trasformandola in un braccio di mare aperto. Senza contare l’escavazione di milioni di metri cubi di fanghi pesantemente inquinati, considerando che il Vittorio Emanuele corre a ridosso della zona industriale di Porto Marghera.

SONO BEN ALTRE le soluzioni che chiedono gli ambientalisti. Su tutte, quella di tenere le navi ben lontane dalla laguna dirottandole verso altri porti oppure su un avamposto al largo collegato alla città da battelli navetta.

Intanto, per la prima volta dopo centinaia di anni, Venezia ha dovuto rinunciare alla sua festa della Sensa e alla regata nel canal della Giudecca che apriva la stagione del remo. Era la festa dello «sposalizio» col mare che portava alla città spezie, cultura e ricchezze. Ma oggi non c’è davvero niente per cui festeggiare.

I comitati No Mose accolgono Renzi: «Il Cvn va sciolto»

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È finita con l’occupazione e lo smontaggio dell’ufficio del Magistrato alle Acque di Rialto, la giornata di mobilitazione lanciata dai centri sociali e dai comitati ambientalisti di Venezia per il Renzi Day. Il presidente del consiglio, sbarcato in laguna per inaugurare la Digital Venice Week, è stato accolto da un folto gruppo di manifestanti No Mose e No Grandi Navi che ha assediato l’antico Arsenale. Gli attivisti sono riusciti a far passare una delegazione che ha consegnato a Matteo Renzi un documento in cui si chiede lo scioglimento del Consorzio Venezia Nuova e il superamento del sistema della “con- cessionaria unica” che, come hanno dimostrato le inchieste dei magistrati, è stato uno strumento non solo di corruzione ma anche di accentramento del potere in mano a una lobby affaristica che ha condizionano la politica, non solo quella cittadina o regionale, a tutti i livelli.
«Se Renzi vuole davvero trovare una via di uscita alla palude di corruzione in cui è sprofondata Venezia — ha commentato Beppe Caccia, già consigliere per la lista In Comune con Bettin, nel disciolto consiglio comunale — deve ascoltare chi da oltre vent’anni denuncia questo sistema che mescola malaffare e malgoverno. Inutile cercare di scaricare tutte le colpe su Baita e Mazzacurati! Erano tutte le imprese che facevano capo al Consorzio a decidere chi spingere politicamente e chi corrompere per far proseguire un’opera come il Mose che non poteva essere realizzata se non bypassando tutte le procedure di tutela ambientale e di gestione trasparente dei fondi».



Tra le richieste che i comitati hanno portato a Renzi figura una moratoria su tutte le Grandi Opere attualmente in fase di realizzazione nel Veneto in attesa che la magistratura faccia chiarezza sull’uso dei fondi e che venga compiuta una verifica da parte di organismi indipendenti (cosa che per il Mose non è mai stata fatta) sull’effettiva utilità, sulla sostenibilità ambientale e sulla pericolosità della struttura.
L’assedio all’Arsenale si è concluso con l’occupazione dell’ufficio del Magistrato alle Acque, proprio ai piedi del Ponte di Rialto. Gli attivisti sono entrati nella sede e hanno letteralmente smontato ogni cosa: dai computer ai cassetti, dagli schedari ai quadri alle pareti. Un lavoro certosino che riveste un significato simbolico, come ci spiega Tommaso Cacciari del laboratorio Morion: «Abbiamo chiesto
a Renzi che il Magistrato alle Acque che si è rivelato uno dei cardini della corruzione (nell’elenco degli ultimi presidenti, è difficile trovarne uno che non abbia mai avuto le manette ai polsi, ndr)
e che fa capo direttamente al Ministero, venga sciolto per riversare le sue competenze all’interno del Comune di Venezia che è un ente più vicino ai cittadini». E così, tanto per portarsi avanti col lavoro, gli hanno smontato l’ufficio!

No Ogm, assalto al campo Monsanto

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Per la terza volta consecutiva, gli attivisti No Ogm tornano a Vivaro, Pordenone, per radere al suolo il campo coltivato a Monsanto di proprietà dell’agricoltore Giorgio Fidenato. L’azione contro il mais transegico dura un quarto d’ora. Il nutrito gruppo di tute bianche che si è dato il nome di Organismi Genuinamente Mobilitati ha colpito nella tarda mattinata di ieri. Degli oltre duemila metri quadri di mais transenigo Mon810 non è rimasta in piedi neppure una pianta. Un lavoro certosino che neppure uno sciame di cavallette...
Ricordiamo che le coltivazioni di Giorgio Fidenato rappresentano una sorta di cavallo di Troia della Monsanto in Italia e in Europa, specialmente in un momento come questo in cui la comunità europea ha deciso per il libero arbitrio degli Stati in materia di organismi trangenici, aprendo di fatto le porte al principio di “coesistenza” col conseguente rischio che negli scaffali dei supermercati si possano trovare prodotti biologici al fianco dei prodotti Ogm. Un pericolo subdolo, sostengono gli ambientalisti, perché, per loro stessa natura, le coltivazioni Ogm sono contaminanti e invasive per tutto l’ecosistema di cui si nutrono. Biologico e transgenico non possono di fatto essere considerati coesistenti.



In base al principio di precauzione, lo Stato Italiano ha sino ad oggi vietato l’uso di Ogm nel Paese. Lo stesso Fidenato è stato multato di 40 mila euro per la sua attività ma evidentemente questo non è bastato dal farlo desistere a intraprendere un’altra coltivazione di Mon810. Per la terza volta consecutiva così, gli Organismi Genuinamente Mobilitati hanno deciso di intervenire prima che il mais arrivasse al punto di non ritorno dell’impollinazione. Lo hanno fatto proprio nei giorni in cui gli attivisti che hanno partecipato alla prima spedizione contro i campi di Fidenato sono stati assolti dalle accuse più gravi, fatto salvo quella di “danneggiamento”. E lo hanno fatto proprio nel giorno di san Giovanni che è tradizionalmente una data magica per l’agricoltura. E’ il giorno della raccolta delle noci per il nocino, dei fiori di camomilla più profumati e... anche il giorno della distruzione delle piante Ogm.

La carovana oltre i confini

chiasso
Chiasso - L’appuntamento era a Milano, piaz­zale della sta­zione, alle 15. Tanti gli atti­vi­sti che hanno rac­colto l’appello lan­ciato da Mel­ting Pot per costruire una caro­vana dei diritti capace di pun­tare dritta alla fron­tiera sviz­zera e riven­di­care quella libertà di movi­mento che l’Europa nega, salvo poi lasciare mano libera alle orga­niz­za­zioni cri­mi­nali di gestire il traf­fico di esseri umani.
Per­lo­meno tre­cento per­sone si sono radu­nate nella città del Duomo, molti pro­ve­ni­vano dai cen­tri sociali di Vene­zia e Padova, o dagli spazi auto­ge­stiti dell’Emilia Roma­gna, del Tren­tino e del Friuli Vene­zia Giu­lia. Molti anche i lom­bardi. Folta la rap­pre­sen­tanza dei migranti e dei richie­denti asilo, almeno una tren­tina dei quali pro­ve­ni­vano dalla casa dei diritti Don Gallo di Padova. Una palaz­zina di pro­prietà di una banca, abban­do­nata a se stessa dopo che la che la magi­stra­tura l’ha sot­to­po­sta a seque­stro, che i richie­denti asilo hanno occu­pato e ristrut­tu­rato in col­la­bo­ra­zione con Raz­zi­smo Stop. Un’esperienza di auto­ge­stione che sta trac­ciano la strada ad altre espe­rienze simili nel Nord est. In par­ti­co­lare dopo che il decreto Lupi ha subor­di­nato la con­ces­sione del per­messo di sog­giorno alla residenza.
«Andiamo alla fron­tiera sviz­zera per denun­ciare l’ipocrisia con la quale l’Europa affronta una pro­blema sociale come quello dei pro­fu­ghi – spiega Nicola Gri­gion, por­ta­voce di Mel­ting Pot – Ipo­cri­sia che pro­prio a Milano è sotto gli occhi di tutti. Qui infatti giun­gono i richie­denti asilo dalla Siria, per­sone in fuga da una guerra feroce che invece di tro­vare acco­glienza ven­gono di fatto con­se­gnati ai traf­fi­canti e costrette a pagare dai mille ai due­mila euro per attra­ver­sare il con­fine e con­ti­nuare il viaggio».



A Milano, come con­ferma una ope­ra­trice del Comune, i pro­fu­ghi pro­ve­nienti da Cata­nia ven­gono inviati alle strut­ture di acco­glienza «dimen­ti­cando» di effet­tuare la regi­stra­zione che pure dovrebbe essere obbli­ga­to­ria ai ter­mini di legge. In pra­tica, ven­gono lasciati in una sorta di limbo e per lo Stato ita­liano non esi­stono più. Il che, con­sente loro di pro­se­guire il viag­gio verso il nord Europa, Bel­gio, Olanda e Sve­zia soprat­tutto ma per far que­sto sono costretti ad affi­darsi alla cri­mi­na­lità che orga­nizza il traf­fico. «Ven­gono tutte le sere con un pull­man davanti al cen­tro dove lavoro — spiega la gio­vane — Chi gli con­se­gna i soldi viene fatto salire e tutti fanno finta di niente». Una con­se­guenza degli assurdi accordi di Dublino che obbliga un rifu­giato a non spo­starsi dal Paese in cui ha chie­sto asilo.
Una situa­zione ver­go­gnosa che si sposa con le poli­ti­che migra­to­rie di una Europa che sce­glie di vivere di “emer­genze” anche di fronte ad una guerra che pro­se­gue da anni. «Diritto di asilo euro­peo», «le vostre fron­tiere ci ucci­dono», «per un’Europa senza con­fini», «non ci serve Mare Nostrum ma canali di ingresso rego­lari», urlano migranti e atti­vi­sti prima di salire sul treno diretto a Chiasso, alla fron­tiera con la Sviz­zera. Un con­fine allo stesso tempo interno ed esterno all’Unione europea.
Gli atti­vi­sti hanno un rego­lare biglietto cumu­la­tivo ma un cor­done di poli­zia impe­di­sce loro di salire sul treno. Alla fine si parte con mezz’ora di ritardo: quasi incon­ce­pi­bile per le pro­ver­biali fer­ro­vie sviz­zere. Durante il viag­gio, i migranti sot­to­scri­vono un docu­mento, più che altro sim­bo­lico, con il quale chie­dono asilo alle auto­rità sviz­zere appel­lan­dosi alla con­ven­zione di Gine­vra sui diritti dell’uomo, denun­ciando come in Ita­lia que­sti ven­gano vio­lati. All’arrivo a Chiasso, il treno viene cir­con­dato da un incre­di­bile cor­done di poli­zia che blocca l’apertura delle porte. Anche i gior­na­li­sti elve­tici che atten­de­vano la caro­vana, ven­gono tenuti fuori dalla sta­zione. Mezz’ora di trat­ta­tiva e alla fine la caro­vana rie­sce a met­tere piede sul suolo sviz­zero e a sten­dere gli stri­scioni. Per qual­che ora almeno la fron­tiera è stata violata.

Gli studenti occupano Ca’ Bembo

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Venezia - Era dai tempi dell’Onda che una sede universitaria non veniva occupata dagli studenti. E’ successo giovedì pomeriggio quando un nutrito gruppo di giovani attivisti ha aperto e “restituito” alla città lo storico palazzo Ca’ Bembo. Una scelta non casuale perché questo monumentale edificio, con Ca' Cappello e Palazzo Cosulich, fa parte del “pacchetto regalo” che il rettore Carlo Carraro intende permutare con una piccola palazzina di proprietà della Pensplan, un istituto di previdenza complementare del Trentino. Operazione non chiara e contestata tanto dagli studenti quanto da docenti universitari e amministrazione comunale che teme che questi tre storici edifici, oggi di proprietà pubblica, si trasformino in altri tre grandi alberghi.
“Ancora oggi il rettore non ha spiegato come e con quali criteri intende portare avanti questa che lui chiama ‘permuta’ - ha spiegato Teresa Gregolin, portavoce degli studenti che si sono definiti con l’hasttag #invendibili -. Pagine dei verbali del consiglio d'amministrazione riguardanti la questione magicamente omesse dalla pubblicazione, confusione terminologica e risposte elusive, CdA spostati all'ultimo momento in aule “segrete”, atti amministrativi secretati... Come se non bastasse, Carraro è a fine mandato e ha convocato l’ultimo consiglio di amministrazione che dovrebbe avallare questa operazione il 24 maggio, a pochi giorni dalla sua scadenza”.



L’occupazione di Ca’ Bembo ha anche lo scopo di far “uscire allo scoperto” i candidati al Rettorato perché prendano posizione pro o contro la permuta. Lunedì, gli studenti abbandoneranno il palazzo e si recheranno a Ca’ Foscari, sede dell’università veneziana, in corteo per chiedere di posticipare l’operazione finanziaria a dopo le elezioni.
“La nostra protesta - si legge in comunicato diffuso degli #invendibili - non vuole limitarsi al voler tutelare quelle che, a nostro avviso, non sono solo sedi universitarie, ma veri e propri luoghi di cultura e aggregazione cittadina. ... Assistiamo, con questa operazione, all'ennesimo atto di svendita di Venezia, fonte a quanto pare inestinguibile di profitto e lucro”.
“L'intera gestione universitaria del mandato Carraro ci fa ben vedere il mutamento in corso nell'università pubblica italiana - conclude Teresa Gregolin -: ci fa ben vedere cosa accade quando si permette ad interessi privati di tipo lobbistico e aziendale di entrare nei consigli di amministrazione delle nostre università e gli studenti vengono visti solo come un enorme bacino di manodopera sotto o per nulla pagata, da sottomettere con l’odioso ricatto dei corsi di formazione o degli stage non retribuiti. E in questo senso, purtroppo, l’università è proprio lo specchio della società. Ma non della società che vogliamo noi”.

Sulle rotte dell'euromediterraneo

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Sull’altra sponda del Mediterraneo, verso le rive d’Africa e le terre d’Oriente, risalendo le tragiche rotte  dei profughi in fuga ed incontrando le realtà protagoniste dei movimenti sociali. Per vedere quello che nessun altro vuole vedere e raccontare quello che nessuna altro racconta. Ancora una volta, gli attivisti di Un ponte per .. e della Coalizione Ya Basta hanno preparato lo zaino e sono partiti. Tre sono le mete come tre sono le carovane lanciate in contemporanea: Libano, Turchia e Tunisia. Le delegazioni viaggeranno lungo i "luoghi simbolo" del dramma che si consuma sui confini mobili dell'Europa, dando vita ad una azione partecipata e coordinata per intessere relazioni, conoscenze ed una narrazione comune, per contribuire alla costruzione di un euromediterraneo di diritti e libertà. Perché non ci si può rassegnare all’idea che persone in fuga da fame e da guerre siano costrette ad affidare le loro vite a mercanti di morte e ad affrontare umiliazioni e sofferenze, “clandestinizzati” da una politica che alza muri invece di costruire ponti. Una politica il cui fallimento - e non solo sotto il profilo umanitario ma anche sotto quello economico e sociale - è sotto gli occhi di tutti.


“Le tre carovane euromediterranee partono dalla condivisione della Carta di Lampedusa per affermare che la vita e i diritti essenziali di ogni essere umano vengono prima delle normative formali” spiegano gli organizzatori.
Fondamentale in questo senso è stata la partecipazione della delegazioni in Tunisia al Forum Sociale Magrebino sulle Migrazioni che si è svolto a Monastir nel fine settimana scorso, con la partecipazione di numerose realtà impegnate sul tema dei diritti dei diritti. Nel Forum è stato possibile presentare e raccogliere adesioni alla Carta di Lampedusa e confrontarsi con realtà come i rifugiati del Campo di Choucha, le associazioni dei familiari degli scomparsi nel Mediterraneo oltre alle molte realtà provenienti da numerosi paesi. Il Forum si è concluso con la proposta di un osservatorio che avrà come obiettivo quello di far sentire le voci comuni di una rete internazionale di attivisti, associazioni, sindacati e realtà di movimento delle due rive, per la promozione dei diritti e della dignità innanzitutto dei migranti.
Da Monastir la carovana è in viaggio verso il sud, sino alla regione di Sidi Bouzid, dove nell’inverno del 2011 cominciò la Primavera Araba e dove in collaborazione con il GVC si visiteranno i tre Media Center Comunitari di Sidi Bouzid, Regueb e Menzel Bousaiane
In contemporanea, la carovana diretta in Turchia è arrivata a Istanbul dove ha iniziato ad incontrare i protagonisti dei movimenti sociali. Al centro della discussione in questi giorni la preparazione delle manifestazioni per il Primo maggio, dopo che il governo ha provocatoriamente vietato le manifestazioni a piazza Taksim. I primi incontri sono stati con realtà di base come il centro sociale Don Kisot, dove gli attivisti hanno potuto partecipare all'incontro del Forum cittadino delle realtà autorganizzate, la Migrants Solidarity Kitchen, la fabbrica autogestita Kasova. La delegazione ha anche incontrato l'Helsinki Citizens Assembly, una ONG che lavora nell'ambito dei diritti umani e che realizza attività di supporto (in particolare di tipo legale) a richiedenti asilo, rifugiati e migranti.  
Poi la Carovana si sposterà nella Turchia orientale dove si svolgeranno incontri con le realtà locali e visiterà il confine con la Siria. Proprio in questi territori incontrerà i movimenti sociali che si battono contro le grandi opere, come le dighe.
La staffetta delle delegazioni continuerà in Libano dove ci si confronterà con la complessità socio-politica e culturale del paese proprio in un momento storico in cui, con più di un milione di siriani rifugiati, il paese è sempre più coinvolto nel conflitto in Siria. La carovana visiterà i campi dei rifugiati palestinesi, arrivati nel paese dal 1948 in poi e dove da due anni hanno trovato riparo anche i palestinesi di Siria. Nel corso degli incontri a Beirut con rappresentanti della società civile libanese, sarà possibile comprendere meglio il Libano liberi da schemi e stereotipi.
Le tre carovane sulle rotte dell’Euromediterraneo organizzate dalla Coalizione Ya Basta Marche, Nordest, Emilia Romagna e Perugia, e dall’associazione Un Ponte Per... coinvolgeranno in tutto una sessantina di attivisti. Media Patner dell'iniziativa sono Nena News, Osservatorio Iraq, Melting Pot Europa.
I report completi dell'iniziativa sranno pubblicati sui siti
www.globalproject.info e www.unponteper.it e sarà possibile seguire le tre delegazioni in twitter all'hastag #caromed

Attivista arrestato e pestato

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Un episodio molto grave. Anche perché ricalca una dinamica che troppo spesso viene ripetuta dalle forze dell’ordine ai danni degli attivisti. Così l’avvocata Aurora d’Agostino ha commentato quanto denunciato dal suo assistito, Zeno Rocca, ventidue anni, militante del centro sociale Pedro di Padova. “Una aggressione immotivata da parte di otto agenti della celere ai danni di un ragazzo che non aveva fatto niente e che non ha nessuna colpa se non quella di essere un attivista politico” ha dichiarato la d’Agostino che sul fatto ha presentato una formale denuncia alla magistratura. L’episodio è accaduto lunedì alle 13,30 nella centrale Riviera Tito Livio, a due passi dalla sede della questura. Il giovane Zeno vi si era recato per adempiere all’obbligo di firma per i fatti accaduti durante la manifestazione del 14 novembre 2012. “Stavo aspettando il tram per rincasare - ha dichiarato in una conferenza stampa svoltasi ieri pomeriggio - quando si è fermata davanti a me una camionetta della polizia da cui sono scesi, mi pare, otto celerini che mi hanno afferrato per il bavero della felpa e per le braccia accusandomi di aver fatto un gesto offensivo nei loro confronti. Gesto che io non ho fatto. Mi hanno chiesto i documenti ma prima ancora che potessi tirare fuori il portafoglio mi hanno gettato per terra, colpito alle gambe e al torace, e ammanettato mentre alcuni poliziotti intimavano ai presenti - c’erano alcuni studenti alla fermata - di non riprendere la scena con i cellulari”.


Quindi Zeno è stato portato in Questura, trattenuto per più di sette ore, dalle 14 a oltre le 19, in una cella di sicurezza senza che nessuno lo informasse dei reati per i quali era stato fermato e che gli fosse permesso parlare con un avvocato. “E, cosa ancora più grave - commenta la d’Agostino -, senza assistenza alcuna nonostante gli fosse stata rotta una costola. Tanto è vero che in ospedale gli è stata fatta una ecografia alla addominale per paura di versamenti e lesioni interne”.
Verso sera, il giovane è stato rilasciato e, da solo, si è recato barcollante per le percosse in pronto soccorso dove gli sono state riscontrate la frattura dell’undicesima costola sinistra, trauma distorsivo, rachide cervicale e contusioni multiple.
Non possono non tornare alla mente i casi Cucchi, Aldrovandi, Uva, Bianzino e gli altri episodi in cui gente in divisa sfoga una immotivata violenza contro i fermati per poi abbandonarli alla loro sorte.
“Da sottolineare, oltre alla mancata assistenza che avrebbe potuto tradursi in un’altra tragedia - ha commentato Aurora d’Agostino - che il famoso gestaccio punibile col reato di oltraggio alla forza pubblica che avrebbe causato l’aggressione dei celerini non è stato neppure messo a verbale!” Zeno è stato denunciato per minaccia, lesioni, resistenza a Pubblico Ufficiale e rifiuto di fornire le proprie generalità. Dopo la conferenza stampa, svoltasi proprio davanti alla Questura, gli amici di Zeno e i suoi compagni degli spazi sociali padovani hanno organizzato una partecipata, oltre duecento persone, e pacifica manifestazione di protesta lungo le strade della città. Del caso si sono interessati anche i deputati Giulio Marcon, Alessandro Zan e Giorgio Airaudo che ha inoltrato una interrogazione parlamentare al ministro degli Interni per far luce sulla vicenda.

Caricati i lavoratori dell'Artoni

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Erano là sin dal 30 dicembre. Barricati dietro tende, coperte e falò, nel bel mezzo della Zona Industriale di Padova. Una quarantina di “soci lavoratori” determinata a resistere ad oltranza davanti ai cancelli del magazzino e bloccare il via vai di merci per protestare conto i licenziamenti voluta dalla Artoni Trasporti. Ieri mattina è arriva la polizia in forze e ha caricato violentemente il presidio. I lavoratori hanno resistito e hanno continuato a mettersi davanti ai camion per impedire il passaggio. Gli scontri si sono susseguiti per tutta la mattinata e alla fine due operai sono stati portati via in ambulanza. “Un bilancio gravissimo e una responsabilità pesantissima sia della Artoni che non ha nemmeno voluto ascoltare le nostre richieste sia della Prefettura che ha scelto di trasformare un problema sociale in un problema di ordine pubblico” ha commentato Gianno Boetto, responsabile dell’Adl Cobas.

La lotta dei lavoratori della Artoni si inserisce in un momento delicato per tutto il comparto del trasporto. Dopo quattro scioperi nazionali e un lungo percorso di lotta, i sindacati di base sono riusciti ad ottenere importanti concessioni da parte di aziende come la Tnt e la Dhl tra cui: l’integrazione al cento per cento per malattia e infortunio, l’erogazione degli istituti contrattuali a prescindere dalle ore lavorate, garanzie sul rispetto degli orari, inserimento di un ticket di ristorazione giornaliero. “In poche parole siamo riusciti a far equiparare i cosiddetti ‘soci lavoratori’ ai normali lavoratori, ponendo fine ad una ingiustificata differenziazione, funzionale solo alle aziende che potevano fare il bello e il cattivo tempo - ha commentato Boetto -. La Artoni però non ha voluto sentir ragioni. Ma se crede che la questione possa essere risolta con una carica della polizia si sbaglia di grosso”. In questo situazione, assume ancora più importanza la manifestazione in programma proprio a Padova sabato 1 marzo che ha tra i promotori l’Adl Cobas e che ha l’obbiettivo di rilanciare dal basso una campagna per la conquista dei diritti. Non solo quindi i lavoratori della logistica, quindi. In piazza scenderanno tutte le realtà sfruttate: dai rifugiati abbandonati dalle istituzioni, agli sfrattati che chiedono una casa, sino

Il Veneto si mobilita con i No Tav. Aperto il casello dell’autostrada di Venezia e occupata la sala del convegno sulle Orte Mestre del ministro Lupi

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Anche il Veneto risponde all’appello dei NoTav e si mobilita contro le Grandi Opere. Nel pomeriggio di ieri, gli attivisti dei centri sociali e del comitato Opzione Zero, hanno “liberalizzato” il casello autostradale di Venezia. Nella mattinata di oggi, i comitati del Polesine hanno impedito lo svolgimento del convegno sulla Orte Mestre. Una iniziativa contro le servitù militari è stata messa in atto ieri anche dal presidio di Vicenza che ha “sanzionato” con razzi e fuochi d’artificio la base di guerra Dal Molin.
L’iniziativa più spettacolare e innovativa svolta nell’ambito della “due giorni” di lotta promossa dall'assemblea dei comitati e delle associazioni ambientaliste del Veneto “30N” è stata comunque quella svoltasi al casello autostradale. Circa 150 attivisti hanno occupato tre caselli per circa un paio di ore, oscurando le fotocellule, per consentire agli automobilisti di transitare gratuitamente. “L’autostrada l’abbiamo già pagata con le nostre tasse - ha spiegato Mattia Donadel del comitato Opzione Zero -. La Concessioni Autostrade Venete dopo aver devastato mezza Regione con passanti e tangenziali con la scusa di voler risolvere il problema del traffico ha scoperto che sono inutili perché gli automobilisti per evitare di pagare pesantissimi pedaggi che non hanno uguali in Europa, preferiscono percorrere le vecchie strade. Allora ha deciso di triplicare il pedaggio, dimenticandosi che questa strada che oggi noi abbiamo liberato è stata realizzata fatta con finanziamenti pubblici”.



L’iniziativa si è svolta senza creare nessun intralcio al traffico, anzi! Moltissimi gli automobilisti che chiedeva ai ragazzi di “venire qui anche domani” e poi, transitando senza pagare, gratificavano di un eloquente “gesto dell’ombrello” gli uffici della concessionaria.
Non meno importante l’azione svoltasi questa mattina ad Adria, nel cuore del Polesine, un folto gruppo di attivisti hanno occupato pacificamente ma con determinazione, sino ad impedirne lo svolgimento, la sala dell’hotel Amolara dove era in programma un convegno sulla Orte Mestre cui avrebbero dovuto partecipare anche il ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi, e l’assessore regionale alla Mobilità, Renato Chisso.
“La sirena delle Grandi Opere finanziate non incanta più nessuno - ha spiegato Tommaso Cacciari del laboratorio Morion di Venezia -. Oramai è chiaro a tutti che il Mose, il Passante, la Mestre Orte, la Tav non servono ad altro che a mercificare e devastare l’ambiente per far convergere denaro pubblico sulle tasche dei privati. Denaro che potrebbe essere usato per creare veri posti di lavoro, per mettere in sicurezza il territorio e garantire servizi pubblici efficienti. Perché l’unica vera Grande Opera che vogliamo è casa e reddito per tutti”.

Una Carta dal valore sconfinato

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La Carta di Lampedusa è scritta e averlo fatto sull’isola non ha solo un valore simbolico. L’atmosfera di questo piccolo scoglio al centro del Mediterraneo ha invaso anche la sala dell’aeroporto, dove centinaia di attivisti si sono riuniti domenica mattina per l’assemblea finale che ha chiuso la tre giorni. Volevano respirarne l’aria, parlare con i suoi abitanti, toccarne con mano le contraddizioni e, anche se per poco, vivere la quotidianità di questo posto che, più di ogni altro, racconta gli effetti che i confini sono capaci di produrre sulla vita di tutti. Qui dove i diritti dei rifugiati vengono calpestati per il solo fatto di dovervi passare forzatamente, qui dove i diritti degli abitanti sono confinati ai margini dell’Europa.
La sera di sabato un lungo applauso aveva salutato la chiusura dell’ultimo paragrafo della Carta dopo dieci ore di discussioni intense, accese, ma proprio per questo vere. Così la mattina di domenica lo spazio è stato dedicato all’agenda programmatica. Hanno raggiunto la sala riunioni a drappelli, sotto la pioggia, stanchi ma soddisfatti. Ad attenderli hanno trovato le donne dell’isola, che hanno aperto l’assemblea plenaria mescolando le loro voci a quelle dei parenti delle vittime dei migranti scomparsi in mare nel 2011, a quelle degli attivisti europei, a quelle di tante e tanti che hanno preso parola. «Chi abita a Lampedusa non può esercitare il diritto alla salute e all’istruzione al pari degli altri — hanno detto le mamme lampedusane –, non ci sono diritti per noi e neppure per chi sbarca. Per questo un incontro così è per noi una manna dal cielo».



Ora che il testo definitivo è pronto, grazie a un grande sforzo collettivo, il primo punto all’ordine del giorno è diventato l’allargamento di chi ne condivide i contenuti. Chi ha scritto la Carta ha voglia di trasformarla in uno strumento per incontrare altri, ma anche e soprattutto per costruire iniziativa. Il testo è pubblicato su www .mel ting pot .org e sui molti altri portali che hanno partecipato alle giornate di Lampedusa con tutte le indicazioni per sottoscriverla, ma già nelle prossime settimane sarà pronto un blog su cui poter aderire al documento. Poi la discussione si è spostata sul terreno delle proposte. Le prime, quelle dei movimenti romani e siciliani che il 15 e 16 febbraio daranno vita a due manifestazioni al Cie di Ponte Galeria e al Mega Cara di Mineo, per chiederne l’immediata chiusura. Proprio quella dei Cie, è stato più volte ribadito, sembra essere la prima questione su cui misurare la capacità di costruire iniziativa comune. L’attualità lo rende necessario proprio ora che le tante rivolte hanno più che dimezzato il numero di centri di detenzione in attività.
Poi lo sguardo si è spostato sull’appuntamento del prossimo primo marzo, un’occasione, dicono in molti, per guardare alla costruzione di uno spazio europeo dei movimenti. L’appello è arrivato dai migranti di «Lampedusa in Hamburg» e dagli attivisti tedeschi che li sostengono. Il primo marzo saranno in piazza ancora una volta. Ma non saranno gli unici. Anche a Niscemi il movimento No Muos, nell’iniziativa contro l’installazione dell’impianto militare, porterà i temi della Carta che riconosce un nesso inscindibile tra la gestione dei confini e la loro militarizzazione.
Ma non si è discusso solo di mobilitazioni e cortei. Perché la Carta di Lampedusa nasce proprio come tentativo di costruire convergenze e intrecciare diversi linguaggi. È Progré, una rete di supporto legale attiva a Bologna, a proporre, proprio sul terreno dell’attività giuridica, di costruire un percorso comune intorno ai punti messi nero su bianco nella Carta di Lampedusa. Dalla Coalizione Ya Basta e Un Ponte Per la proposta di costruire per la prossima primavera le carovane sulle rotte dell’Euromediterraneo, in Libano, Tunisia e Turchia, per raccontare ciò che accade lì dove l’Europa esternalizza le sue frontiere e dove oggi arriva chi tenta di fuggire da guerre e conflitti.
L’orizzonte dei prossimi mesi guarda al post elezioni europee, quando il nuovo parlamento che siederà a Bruxelles dovrà fare i conti con la questione delle politiche migratorie dell’Unione. L’invito è a una mobilitazione europea prima e dopo la scadenza elettorale, per portare le battaglie dei migranti e quelle contro i confini lì dove i governi europei discuteranno di Frontex, asilo e politiche comuni.
La Carta di Lampedusa muove insomma i primi passi: non un’organizzazione, tengono a sottolineare i partecipanti, ma un patto costituente tra tanti e diversi, un modo per condividere percorsi nei territori e su scala euromediterranea.

"L'accoglienza che vogliamo non è una utopia"

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“Non voglio e non posso dettare i contenuti della Carta, questa deve nascere da tutti voi e dal vostro incontro con la comunità dell’isola, ma credo comunque che questa debba tener conto del fatto che le attuali politiche migratorie violano non soltanto i diritti dei migranti, ma anche quelli delle popolazioni legate al destino di confine”. Così, dopo i saluti di rito, con un piede in isola e uno in mare, la sindaca di Lampedusa, Giusi Nicolini, ha cominciato il suo applaudito intervento davanti all’assemblea degli attivisti venuti dal continente e dei rappresentanti delle categorie economiche e delle associazioni dei residenti. L’incontro si è svolto venerdì pomeriggio, in apertura, prima di cominciare la discussione vera e propria sui contenuti della Carta di Lampedusa.
La grande partecipazione, sostiene la sindaca, dimostra che la Carta di Lampedusa ha già raggiunto il suo primo obiettivo e si è rivelata un utile strumento per aggregare “un mondo di persone che su temi come le migrazioni, la lotta alle mafie e le battaglie per i diritti umani ha fatto una ragione di vita”.
L’unicità dell’isola, continua Giusi Nicolini, non sta solo nella sua geografia ma anche e soprattutto nel coraggio con cui ha affrontato situazioni difficili. “Anche il papa, quando è venuto a trovarci, non ha cessato di stupirsi nel constatare cosa ha saputo donare in termini di accoglienza questa piccola comunità. Credete che non è retorica o vanagloria affermare che la nostra isola, così piccola e così sola, ha saputo affrontare flussi per noi enormi di migrazioni. Lampedusa ha dimostrato quando sia cinico, ipocrita e pure falso sostenere che la grande Europa non possa accogliere le persone che sono passate di qua. Lampedusa ha saputa far cadere il velo della menzogna di politiche sicurtarie che alimentano e allo stesso tempo si nutrono di paure ingiustificate. Quelle stesse politiche che hanno fatto scempio dell’immagine che aveva la mia bella isola. Lampedusa ha saputo accogliere e come lo ha fatto in passato, lo saprà fare anche in futuro. Ma deve essere chiaro che anche l’Europa lo può e lo deve fare”.


Chiudersi in una fortezza, avverte la sindaca, non servirà a difendere e a far sopravvivere una economia in profonda crisi. “Così come non servirà negare il diritto all’accoglienza a coloro che prima di tutto sono naufraghi delle politiche di sviluppo che l’Europa ha scelto per il loro Paese”.
Le frontiere, continua Giusi Nicolini, non possono limitare il diritto ad una vita degna. “Non c’è una sola Lampedusa, in Europa e nel mondo. Sono tante le Lampedusa nel mare Mediterraneo così come tra l’Australia e le Filippine. Tutte queste Lampedusa vogliono che il diritto di asilo diventi effettivo, che la tratta venga combattuta e resa inutile da un modo diverso di affrontare le politiche migratorie. Non ci sarebbe bisogno di Mare Nostrum se ci fossero forme diverse e più agili per concedere il diritto di asilo”.
Lampedusa quindi come perfetto paradigma per rovesciare un linguaggio politico che continua ad imprigionarsi dentro gabbie sicurtarie. “Lampedusa deve trasformarsi in quel modello che in nuce già è. Non più una frontiera militarizzata, sostenuta da navi cisterna e sotto il giogo di una continua emergenza, ma un luogo che possa dimostrare a tutte le Lampeduse del mondo come potrebbero essere: la porta di ingresso per un accoglienza dignitosa in cui anche i diritti degli abitanti siano rispettati. Se solo imparassimo a guardare al fenomeno della migrazione in modo diverso, basandosi più sui dati che sulle nostre paure...”
La Carta di Lampedusa, afferma la sindaca, ha tutte le potenzialità per dare le ali a questa che non è solo una utopia. “Noi che viviamo in questo piccolo scoglio perso in mezzo al mare - conclude tra gli applausi sia degli attivisti che dei residenti - sappiamo bene che non ci sono sogni impossibili. E se siete venuti sino a qua, lo sapete bene anche voi. Per questo, sono sicura che ci sorprenderete”.

Il patto solidale di Lampedusa

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Sull’isola butta vento di libeccio. Le onde schiumano alte e i traghetti sono rimasti al sicuro, attraccati alle banchine di Porto Empedocle. Molti han dovuto abbandonare le speranza di raggiungere l’isola. Eppure sono in tanti, qui, gli attivisti venuti a scrivere la Carta di Lampedusa, per disegnare dal basso una nuova geografia dei diritti. Tanti che, in tutta l’isola, non hanno trovato una sala sufficientemente capiente per contenere tutti i presenti, e hanno dovuto così chiedere lo spazio della sala conferenze interna allao scalo aeroportuale.
Solo venerdì, durante la riunione introduttiva dei lavori, i partecipanti registrati erano oltre trecento. Questo primo incontro ha fornito una importante occasione di confronto con gli abitanti desiderosi di raccontare la vita di chi è costretto a vivere una vita in cui tutto si trasforma in emergenza. L’intervento della sindaca, Giusi Nicolini, di cui raccontiamo a lato, è stato seguito da quelli dei rappresentanti degli imprenditori e di alcune associazioni locali.



“La gente di Lampedusa non ne può più di tutti quei politici che vengono qui a far passerella: promette mari e monti e poi se ne va, abbandonandoci in un mare di problemi - confessa Angelo Mandracchia, portavoce degli imprenditori -. Il vostro approccio però è diverso. Non pretendete di insegnarci come fare accoglienza. Non promettete niente. Criticate queste politiche migratorie che scaricano tutto il problema sulle piccole comunità di frontiera. E noi di Lampedusa siamo i primi a poter dire, come dite voi e proprio perché lo abbiamo constatato sulla nostra pelle, che queste sciagurate politiche migratorie sono inutili, costose e sconfitte in partenza. Non possiamo fare a meno di domandarci ogni giorno, cosa potremmo realizzare con tutti i milioni di euro che spendono per militarizzare l’isola, se fossero invece investiti per una vera accoglienza e per migliorare le condizioni di vita degli abitanti. Lo sa lei che basta qualche settimana di maltempo per lasciarci tutti senza frutta, senza verdura e anche senza gas?”
La straordinaria partecipazione con la quale i lampedusani hanno accolto gli attivisti sbarcati nella loro isola da tutta Italia oltre che da tanti altri Paesi d’Europa e del Nordafrica, è proprio la prima nota da sottolineare. Le iniziali diffidenze sono state superate in tanti incontri nelle scuole, nella sede del Comune e, non da ultimo, ai tavolini dei bar e delle pasticcerie. Un confronto utile per capire come Lampedusa stia vivendo questa sua altalenante e schizofrenica condizione di isola caserma e di isola dell’accoglienza allo stesso tempo.
Perché la bella Lampedusa è prima di tutto una caserma a cielo aperto e la presenza militare in città è a dir poco asfissiante. Le strada principale che attraversa il paese, la pedonale via Roma, è continuamente attraversata in senso perpendicolare da camionette e da blindati dei carabinieri. Sui muri, si contano a decine e decine i cartelloni con la scritta “Zona militare. Vietato l’accesso”. E poi elicotteri, militari in assetto da guerra, guardie di finanza, polizia di frontiera. Impossibile anche fotografare il “cimitero” dei relitti, quanto resta cioè dei barconi che trasportavano i profughi, che ha subito qualche giorno fa un tentativo di incendio da parte di ignoti. L’area è presidiata da militari che allontanano immediatamente i curiosi. E se spieghi che sei un giornalista ti rispondono: “Proprio per questo”.
Sabato invece è stato il giorno della scrittura della Carta, iniziata in una sala sempre più stretta che non ha smesso di riempirsi per tutta la mattinata e che faticava a contenere tutti. Punto su punto, sono stati discussi e redatti nella loro forma definitiva tutti i capitoli che costituiranno la Carta di Lampedusa e sui quali, vale la pena ricordarlo, è stato svolto nei mesi precedenti un grande lavoro di scrittura collettiva sul web. Una lunga e faticosa giornata di discussioni e di aggiustamenti, tanto per chi forniva il suo contributo alla stesura del documento che dei tanti attivisti impegnati sul fronte della comunicazione per aggiornare blog, siti e social network.
Anche perché, le realtà presenti erano davvero tante. Ed è proprio questo il secondo punto da evidenziare. La grande mobilitazione creatasi attorno all’appello lanciato dal Progetto Melting Pot Europa. Associazioni, italiane ma anche europee e nordafricane, laiche e cattoliche, movimenti, sindacati, media indipendenti, singoli cittadini ma anche inviati di amministrazioni comunali sensibili al tema... praticamente l’intero arcipelago antirazzista che ruota intorno ad un Euromediterraneo disegnato sulle “frontiere” della libera circolazione.
“E’ importante sottolineare che la stesura della Carta non esaurisce il nostro cammino, anzi - ha concluso Nicola Grigion di Melting Pot, appena dopo la chiusura definitiva del documento - E’ stato un lavoro collettivo ma eccezionale. Un testo che è un vero e proprio patto tra tanti e diversi, ma allo stesso tempo una dichiarazione programmatica. Il frutto di uno sforzo di condivisione che è già di per sé un fatto politico importantissimo. Ora ci aspettano mesi di lotte e campagne da condurre in tanti e diversi, a partire da quelle per l’immediata chiusura dei pochi centri di detenzione ancora attivi in Italia. Ma anche un periodo in cui affrontare l’Europa e le politiche che ha costruito nel Mediterraneo. Per rovesciarle. Una sfida che non possiamo permetterci di perdere”.

Satellite comunicazione

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Da Padova a Lampedusa in auto. Le nuove frontiere della comunicazione sono anche questo: attraversare la penisola con un' antenna satellitare sul tetto dell'auto, per consentire a chi non potrà raggiungere l'isola di seguire le giornate della Carta di Lampedusa.
Sono partiti lunedì da Padova per raggiungere Napoli ed imbarcarsi per la Sicilia. Poi in auto da Palermo a Porto Empedocle per prendere un'altra nave fino all'isola.
I nuovi strumenti di comunicazione hanno avuto fin dall'inizio un ruolo fondamentale per la Carta di Lampedusa. Ma le assemblee on-line ed il documento scritto collettivamente attraverso il docuwiki pubblico sono stati solo il preludio. E' intorno alla tre giorni sull'isola che la comunicazione indipendente cercherà di spingersi oltre, con una connessione satellitare messa a disposizione da Sherwood.it.



La diretta delle assemblee potrà essere seguita in streaming su www.meltingpot.org, mentre sabato 1 e domenica 2 febbraio, alle 21.30, andranno in onda due trasmissioni dedicate all'isola di Lampedusa ed ai confini dell'Europa. Due grandi co-produzioni lanciate da Sherwood che raccoglieranno i contributi e le immagini messe a disposizione da ZaLab e moltissimi artisti, seguite dallo visione gratuita di “Mare Chiuso” di Andrea Segre e Stefano Liberti e del film/documentario “I nostri anni migliori” di Matteo Calore e Stefano Collizzolli.
Chi poi vorrà seguire approfondimenti, interviste e commenti potrà farlo attraverso i tanti media indipendenti e non che saranno sull'isola. Globalproject, Dinamopress, Amisnet, Qcode Magazine, Radio Onda D'Urto, Radio Roarr, Left Avvenimenti, Corriere delle Migrazioni, solo per citarne alcuni. Ed ovviamente dalle pagine di questo giornale. Tutti impegnati a dare voce a questa sfida lanciata contro i confini dell'Europa. Insomma, chi non è riuscito a raggiungere l’isola può stare tranquillo. “Stay tuned”, resti connesso e non si perderà una parola.

Cie. La mappa del fallimento

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L'ingresso immediato e sicuro di chi fugge dai conflitti, la necessità di uno stravolgimento delle politiche di accoglienza a livello comunitario, l'azzeramento delle risorse destinate alle operazioni militari/umanitarie di controllo dei confini, il completo rovesciamento delle condizioni che legano il soggiorno al lavoro, la libertà di circolazione interna allo spazio europeo. Sono questi alcuni dei punti cardine della Carta di Lampedusa. La sfida più importante è però quella che comincerà alla conclusione dei lavori sull'isola, quando questi nodi si dovranno trasformare in agenda programmatica su scala euromediterranea. Certamente uno dei temi più caldi su cui si misureranno movimenti e associazioni è quello della detenzione amministrativa in Italia. Secondo il Viminale sono 13 i centri in esercizio sul territorio nazionale. Quelli di Serraino Vulpitta, Brindisi, Crotone e Bologna, sono ufficialmente chiusi in attesa di riaprire.

Il Cie di Modena è stato definitivamente cancellato, mentre la struttura di Lamezia Terme (Cz) non è operativa perché i locali non risultano idonei alla destinazione d'uso. A questi si aggiunge la recente chiusura temporanea del centro di Gradisca d'Isonzo (Go) e lo svuotamento, nei fatti, del Cie di via Corelli, a Milano, dove i posti disponibili sono ormai ridotti all'osso. Quelli costruiti nel 2011 a Santa Maria Capua Vetere e Palazzo San Gervaso, pur attivi, sono in attesa del completamento dei lavori di adeguamento, mentre per il Cie di Milo si prospetta la chiusura definitiva. Tutti gli altri operano invece con capienza ridotta a seguito dei danneggiamenti prodotti dalle rivolte. La prima scommessa per i movimenti che si ritrovano a Lampedusa si gioca proprio intorno a questa mappa, che rappresenta il fallimento delle politiche europee in materia di immigrazione. Le occasioni non mancheranno già nelle prossime settimane. I fronti caldi saranno Ponte Galeria e via Mattei a Bologna, dove si riaprirà la partita per la chiusura del primo e per la dismissione definitiva del secondo. E poi ancora al Mega Cara di Mineo, simbolo di un sistema di accoglienza disastroso e speculativo che, su tutto il territorio nazionale, dopo i nuovi arrivi dalla Siria e dal Corno d'Africa, rischia di gonfiare nuovamente le tasche di speculatori ed affaristi sulla pelle dei migranti.

A Lampedusa per cambiare l'Europa

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Quanta gente è passata da Lampedusa in questi anni. Tanti turisti, tanti migranti, ma anche tante persone indesiderate seguite da scorte e da giornalisti, pronte a versare lacrime davanti alle telecamere e a dispensare promesse mai mantenute. Ma questa volta no. Questa volta, in quest'isola al centro delle rotte forzate del Mediterraneo, si respira un'altra aria. E' gennaio ma sono arrivati a Lampedusa in tanti, giovani e meno giovani, donne e uomini. Vengono da tutta Italia, ma ci sono anche greci, francesi, tedeschi, nordafricani. E' impossibile confonderli con dei turisti. Hanno scelto di incontrarsi qui perché, nonostante la strage del 3 ottobre scorso, l'Europa non ha smesso di investire miliardi nella politica del confine. Sullo sfondo rimane così una vera e propria geografia della morte, disegnata con il denaro di tutti, che negli ultimi venticinque anni ha causato perlomeno ventimila vittime. Da venerdì 31 gennaio a domenica 2 febbraio Lampedusa sarà però al centro di un'altra storia. Tre giorni di lavoro intensi, fatti di assemblee ed incontri, di discussioni e confronti, per scrivere quella che si chiamerà “la Carta di Lampedusa”. Un patto Euromediterraneo che proprio a partire da questo luogo condannato e abbandonato dai governi di ogni colore, lancia la sfida ai confini dell'Europa.


Tra i promotori della Carta di Lampedusa c'è Melting Pot. Incontriamo Nicola Grigion che da qualche giorno è sull'isola. “Questa è una grande occasione per ripartire insieme – ci dice. La Carta nasce dopo una tragedia, ma è frutto di un decennio di battaglie antirazziste, un patrimonio costruito dalle lotte dei migranti e da chi si è opposto all'uso del diritto come uno strumento da imporre con arbitrio. E può diventare un vero e proprio patto costituente, un orizzonte comune dentro cui muoversi in molti e diversi.” I temi scottanti ci sono tutti. La bozza di documento che verrà discussa non lascia spazio ad ambiguità e combina spinte utopiche ad una giusta dose di concretezza. Non è però una proposta di legge. Apre dei campi di tensione che nei prossimi mesi saranno al centro dell'agenda dei movimenti e probabilmente anche della politica. Ci sono le elezioni europee e per forza di cose tutti dovranno fare i conti con la questione migrazioni. “Il periodo elettorale rischia di regalarci una sequenza di annunci e retoriche – continua Grigion. “Ma può essere anche una grande occasione per i movimenti di aprire varchi. Le forze che governano l'Unione non possono cedere su questi temi. Al massimo cercano di trovare nuovi modi per rilegittimarne la gestione dei confini. Perché per l'Europa, così come l'abbiamo conosciuta finora, i confini sono un punto cardine. Ma noi non possiamo più accettare uno spazio europeo in cui esiste una gerarchia della cittadinanza, perché in questa vicenda vengono meno i diritti di tutti”.
L'appuntamento sull'isola raccoglie un ampio spaccato del variegato arcipelago dei movimenti e dell'antirazzismo. Una composizione meticcia, fatta di piccole e grandi associazioni, di centri sociali ed altre realtà auto-organizzate, di movimenti per la casa e sindacati, di Ong e centri culturali, di media indipendenti e collettivi studenteschi. Ci sono i rifugiati che da mesi sono accampati in piazza ad Amburgo ed i parenti delle vittime dei naufragi del 2011, c'è il mondo laico e quello cattolico, ci sono docenti e giuristi. Sono tanti, diversi, ma anche in questi giorni in cui la politica italiana discute l'ipotesi di cancellazione del reato di clandestinità, non sembrano aver voglia di accontentarsi delle briciole. Vogliono andare fino in fondo. Come Pamela Marelli, dell’Associazione Diritti per Tutti. In questi anni, a Brescia, è stata al fianco dei migranti che hanno lottato contro la sanatoria truffa e per il diritto alla casa. Trova che l'evento sia un fatto inedito. “Ricordo che, dopo la strage, tutti i politici giuravano che la Bossi Fini sarebbe affondata assieme a quel barcone. Ed invece siamo ancora qui ad aspettare qualcosa di concreto. Ora tocca a noi dare un segnale forte. Un segnale dal basso e allargato. “Finalmente, Lampedusa non sarà più solo l’isola delle emergenze ma un vero e proprio trampolino per una nuova Europa”. Anche il processo che ha portato alla costruzione dell'incontro ha avuto risvolti innovativi. Nulla a che vedere con la democrazia della rete tanto cara al M5S. Le assemblee si sono svolte on-line grazie ad un sistema di web-conference messo a disposizione da Global Project. E da oltre settanta città italiane centinaia di persone, in carne ed ossa, hanno partecipato a discussioni accese per preparare l'evento. La stessa bozza della Carta è stata redatta da un'infinità di mani attraverso una piattaforma di scrittura condivisa. La tre giorni si aprirà venerdì pomeriggio con Giusi Nicolini che insieme agli studenti, alle associazioni ed agli abitanti dell'isola, racconterà la vita quotidiana di un luogo dimenticato da tutti, dove in pochi giorni può nascere una struttura miliare ma non c'è modo di sistemare la scuola o di costruire un vero ospedale. Sabato invece l'intera giornata sarà dedicata alla stesura definitiva della Carta, mentre per domenica mattina è prevista l'assemblea plenaria in cui si discuterà una possibile agenda comune per i mesi futuri. Ed è proprio la ricerca di un orizzonte unitario ad essere il vero punto centrale della Carta di Lampedusa. Perché se la tragedia del 3 ottobre ha reso evidente il fallimento e la violenza delle politiche in materia di immigrazione, ha anche imposto un nuovo inizio ai movimenti che contro quelle politiche si sono battuti. “Da vecchio comboniano - dice Alberto Biondo dei Laici Missionari di Palermo - lasciatemi dire che trovo questo progetto sacro. Se la politica si permette di fare le porcherie che fa, e prendere in giro i cittadini, è perché siamo disgregati. Uniti invece facciamo paura”. Ed anche Edda Pando di Arci Todo Cambia e Prendiamo la Parola è sulla stessa lunghezza d'onda. “Dobbiamo uscire da questo eterno essere minoranza e costruire un pensiero che diventi maggioranza. Il problema è quello di trovare delle convergenze. Il che non significa giocare al ribasso. Ma sono vent’anni che non vinciamo niente e, anche al di là delle tragedie che si susseguono, le condizioni dei migranti peggiorano di giorno in giorno”. Ma come accoglierà la gente dell’isola l’invasione di questa moltitudine di persone che non ha timore di dire che vuole cambiare l'Europa? “Nel 2006 arrivammo a Lampedusa in 600 e gli isolani non volevano farci sbarcare – racconta Alfonso Di Stefano della Rete antirazzista catanese - “dopo dieci giorni di lavoro e confronto si unirono a noi nel corteo contro il CIE. Capirono che i loro diritti e quelli dei migranti non sono contrapposti, anzi”. Tra i temi caldi c'è quello della militarizzazione dei territori che, a Lampedusa come nel resto della Sicilia, è all'ordine del giorno. “Credo sia importante dire questo: accogliamo i migranti ed espelliamo le basi” - aggiunge l'attivista di Catania.
Ognuno con il suo punto di vista, ognuno con la sua ambizione, tutti con un' incredibile voglia di rimettersi in gioco in quello che si candida ad essere un nuovo possibile spazio pubblico per la sinistra. Ma se qualcuno pensa a questo documento come una tra le tante dichiarazioni dei diritti scritte nel secolo scorso e poi rimaste sulla carta, si sbaglia di grosso. La sfida più importante è proprio quella che si giocherà nei prossimi mesi, quando la Carta di Lampedusa dovrà misurarsi con la sua possibilità di essere realizzata. “Nessuno ci regalerà nulla – conclude Grigion. La Carta di Lampedusa non è una sintesi, ma un motore. Il nostro futuro è fatto di battaglie concrete contro i confini, quelli che uccidono, come a Lampedusa, ma anche quelli che costringono tutti noi a vivere in un' Europa fatti di ricatti, austerity ed esclusione. Si apre un terreno di ricerca vero e collettivo. Tutti dicono di volere un'altra Europa ma non ci sono scorciatoie. Per costruirla dobbiamo essere in tanti e noi iniziamo a farlo da Lampedusa.

Italeñas, storie di italiani diversi dagli altri

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Melina è una ragazza come tutte le altre. Ha 19 anni, frequenta la quinta superiore ed è in procinto di dare l’esame di maturità. Melina è nata in Italia, a Genova, dove tutt’ora risiede con i suoi genitori. E’ italiana e si sente italiana. Ma Melina non è una italiana come tutte le altre. Non ha cittadinanza e neppure diritto di voto. Perché Melina è una italiana cosiddetta di “seconda generazione”. I suoi genitori sono originari dell’Ecuador. Un Paese di cui lei non conserva nessun ricordo, considerato che ci ha vissuto solo per pochi mesi, quando aveva quattro anni e i suoi sono dovuti rientrare per un breve periodo in patria. Melina, lo abbiamo già scritto, si sente italiana ed è italiana. Qualche mese fa ha inoltrato una richiesta per ottenere la cittadinanza - “L’ho fatto appena sono diventata maggiorenne perché lo considero un mio diritto”, spiega - ma la domanda è stata respinta perché non le è stata riconosciuta una sufficiente “continuità di residenza” in Italia. Sono bastati quei pochi mesi trascorsi in Ecuador quando era bambina a giustificare la risposta negativa della prefettura. Oggi, Melina che studia per la maturità, se dovesse perdere il permesso di soggiorno, potrebbe essere espulsa dal nostro Paese. Perché lei, italiana, non è una italiana come tutte le altre.


A raccontarci la storia di Melina, che poi è la storia di oltre 600 mila nati in Italia da genitori stranieri (il 15 per cento delle nascite, secondo i dati del 2011), è il laboratorio di video partecipativo Za Lab. Un progetto volto a raccogliere “vite ignorate e segnate dai conflitti di oggi, con il desiderio di farne storie per tutti”. La video-storia di Melina intitolata “Italeñas”, che potete vedere sul sito www.zalab.org, è stato realizzato da David Chierchini, Matteo Keffer e Davide Morandini. La voce narrante è quella di Domenica Canchano, giovane giornalista originaria del Perù approdata in Italia da bambina. Anche lei è una “italeñas”, una italiana diversa da tutte le altre italiane. Domenica è regolarmente iscritta all’Ordine dei Giornalisti ma è stata inserita d’ufficio nell’elenco speciale degli stranieri. Il che significa che paga le stesse tasse di tutti gli altri colleghi “italiani” ma non ha diritto a dirigere una testata o a svolgere le funzioni di direttore responsabile. “Il problema di Melina sta tutto nella legge che determina i criteri di concessione della cittadinanza italiana - spiega amareggiata - Se ne discute da perlomeno una ventina di anni. Se in tutto questo tempo non si è fatto nulla vuol semplicemente dire che non c’e la volontà di farlo”.
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